Sep 12, 2011
Lungo linee di rottura
Qualcosa di strano è successo. Fino a solo qualche anno fa, le discussioni su un possibile rovesciamento di questa società andavano sempre di pari passo con le medesime osservazioni: «Ma, naturalmente, noi non vivremo mai tutto ciò» oppure «Se un giorno accadrà». Come se fosse necessario fare questa premessa per evitare di sprofondare immediatamente nell’inevitabile cinismo. Quel «mai» o quell’«un giorno», due facce d’uno stesso miraggio, tenevano il movimento antiautoritario sotto trasfusione. Impedivano di mettere sul tavolo certe questioni. Imponevano limiti invisibili alle nostre attività. E forse a giusto titolo. Forse non si poteva fare altro che mantenere vive certe idee e pratiche all’ombra della società, al margine dei movimenti di protesta politica. Forse la reazione (repressiva e ideologica) alle lotte degli anni 70 e 80 ci ha lasciato frastornati in questi ultimi vent’anni. La società degli anni 90 e del 2000 ci lascia poco spazio per respirare. Comunque sia, qualcosa è cambiato. Nonostante la mia giovane età, vive in me il pensiero che «le condizioni sociali» non siano più le stesse. Ma anche che pure una «prospettiva anarchica» non possa più essere la stessa e che esistano già diverse sperimentazioni che sondano nuove possibilità. Scrivo «nonostante», ma forse è proprio grazie alla mia giovane età che posso vedere ovunque dei cambiamenti. Magari tra vent’anni si vedrà che il mondo continua ancora a girare e che gli stessi meccanismi autoritari di sfruttamento e d’oppressione fanno il loro mestiere, a parte qualche piccolo adattamento e ristrutturazione qua e là. Ma almeno che questo avvenga perché il nostro entusiasmo non ha prevalso sulla società conservatrice, e non perché siamo rimasti zitti quando bisognava parlare, perché abbiamo mormorato quando occorreva urlare. Che ciò non accada perché avevamo le mani vuote, come un mendicante per strada che implora una briciola di protesta mentre il Progresso ci passava davanti. Quando invece avremmo potuto imbracciare un bastone con cui fermare, almeno per un istante, la macabra carovana.
Per mettere sulla carta la nostra rabbia e trovare le parole per esprimere i nostri desideri, facciamo spesso ricorso a scritti che risalgono a molto prima della nostra nascita. Qualche volta si dice che quei vecchi opuscoli anarchici siano superati. Ma sta proprio là la loro forza. Invece di essere l’applicazione di un modello sterile, una riproduzione mirante a provare che si ha ragione, essi si collocano sul filo di lama fra la critica totale e la presenza nelle situazioni specifiche. Tuttavia, bisogna essere in grado di capire le attuali situazioni specifiche. Sul terreno sociale vediamo che oggi, dopo l’attacco neoliberista e ideologico nei confronti dello Stato sociale degli anni 90, è iniziata la demolizione di fatto della socialdemocrazia, con la spina nel fianco della crisi economica (perversamente provocata dall’ideologia neoliberista). Scuola, sanità, cultura, trasporti pubblici, urbanistica devono ora dimostrare, più che il loro plusvalore elettorale, il loro plusvalore economico. Bisogna risparmiare in ogni ambito, a parte l’apparato repressivo che non si tocca (benché pure il settore carcerario e quello della sicurezza vengano parzialmente privatizzati). Intanto, i padroni europei Merkel, Sarkozy e Cameron vengono a raccontarci che la società multiculturale ha dichiarato bancarotta. Insomma, basta con l’integrazione dolce, con le riforme sociali e le sovvenzioni, con la distribuzione dei posti di potere fra i leader dei movimenti sociali e delle comunità. La pace sociale ci verrà imposta sempre più duramente, mentre sempre più persone verranno gettate fuori bordo. Dinanzi alla constatazione che la povertà aumenta o rimane invariata (non ci sono molte prospettive di ascesa sociale), certi gruppi non sembrano più essere i benvenuti in questa società. Non c’è che il lavoro (decentemente) remunerato a far accedere all’integrazione sociale, mentre la prigione diventa un luogo dal quale alcuni passeranno sicuramente molte volte nel corso della loro vita e gli scontri di piazza fra guardiani dell’ordine e giovani sono diventati una costante.
I sollevamenti nel Nord-Africa e la loro sotterranea corrente rivoluzionaria trovano altrettanti echi dall’altra parte del Mediterraneo. Come spesso capita, l’eco più mediatizzata è probabilmente la meno interessante. Le occupazioni di pubbliche piazze in Spagna (e in altri paesi) e gli appelli ad una «vera democrazia» sembrano essere sovente null’altro che atti disperati di un elettorato di sinistra in piena confusione da quando i partiti socialdemocratici hanno essi stessi sotterrato il progetto socialdemocratico. Benché io trovi simpatico che delle persone si prendano lo spazio ed il tempo per rimettere in questione, magari non tutto, ma tuttavia non poche cose, sarebbe ingenuo limitarsi a ciò; il pacifismo e il consenso delle assemblee generali assorbono troppo spazio e troppo tempo. C’è perfino chi osa pretendere che le sommosse nel mondo arabo fossero pacifiste e organizzate attraverso internet. Per ovvie ragioni, i media occidentali prestavano tutta la loro attenzione a piazza Tahrir, ma mi sembra che ad aver messo in ginocchio i regimi siano state soprattutto le città ed i villaggi in cui tutte le istituzioni del potere (sedi di partito, edifici governativi, commissariati) sono state attaccate e incendiate. E quelli che hanno cercato di seguire Twitter durante il sollevamento in Egitto si annoiavano a morte, esattamente come davanti alla riproduzione all’infinito dei titoli di Al-Jazeera (che trasmetteva soprattutto da piazza Tahrir).
Al di là dei limiti dei disordini in corso, ci sono alcune costanti incoraggianti. Il gran silenzio al cospetto dello Stato nel dicembre 2008 in Grecia, nel novembre 2005 nelle banlieue francesi e nel corso di altri conflitti sociali. Nessuna rivendicazione formulata, nessun rappresentante designato, nessun dialogo. Le possibilità di recupero sono così seriamente limitate. In più, la democrazia stessa mostra il proprio rifiuto di dare risposte al di fuori di una dura repressione. Anche davanti ai bravi cittadini «indignati», regnano i manganelli. È probabile che lo Stato abbia ora optato per uno scenario in cui sollecita una guerra di tutti contro tutti (o comunità contro comunità). Una tendenza già presente e in piena crescita in altri continenti. In un simile contesto, lo Stato basa la propria legittimità sul ruolo d’arbitro (che non è necessariamente sempre neutro).
Sia chiaro, non sto cercando la formula applicabile al contesto sociale che fornirà inevitabilmente la soluzione a tutti i problemi. Non penso nemmeno che il contesto specifico sia simile ovunque. Con un certo divertimento, ma anche con una dose di indignazione, abbiamo potuto constatare che l’illusione del determinismo storico è sempre viva. E che le sue parole profetiche riescono ancora a far cadere molte persone sotto il suo fascino. C’è chi aveva predetto l’insurrezione o la guerra civile come se fossero già presenti. Ci sono quelli che hanno la bocca piena di moltitudini o di democrazia di base, sia già esistenti che in divenire. Il capitalismo ci avrebbe fornito la base per la sua stessa negazione. Basterebbe liberarcene, per una sorta di formazione d’autocoscienza, un progetto politico. Capisco che marxisti di ogni risma (post-, neo-, accoliti del giovane Marx, o del Marx dell’epoca del suo opuscolo sulla Comune di Parigi, ecc.) siano rimasti abbastanza sconcertati quando è diventato chiaro che i soggetti rivoluzionari si trasformavano in gruppi-obiettivo del clientelismo e delle riforme socialdemocratiche. Alcuni hanno magari rigirato le proprie vesti per ragioni piuttosto pragmatiche (la pressione repressiva, le radici della carriera accademica, le liste vuote degli aderenti…). Ad ogni modo, una parte di loro ha gettato a mare la dialettica. Adesso lanciano l’immantenismo. Lo stesso gioco filosofico attraverso cui anche il cristianesimo ha cercato di rinnovarsi. Una volta che è stato chiaro a tutti che non c’è alcun Dio al di sopra di noi che possa punirci e ricompensarci, e che una vita senza Dio è certamente possibile, ci hanno raccontato che Dio era presente ovunque (e soprattutto nelle cose «buone») e che non bisognava considerare Dio come un essere onnipotente (e quindi giusto o ingiusto) al di sopra della terra (sebbene alcuni lo abbiano preteso per secoli).
Così, il Comunismo non sarebbe più il risultato di un avvenimento violento, politico: la Rivoluzione. Sarebbe già presente ovunque e bisognerebbe solo portarlo alla sua piena coscienza. In questa maniera l’aspetto più interessante della dialettica, ovvero la rottura, sparisce. La rottura, quel momento in cui diventa chiaro chi fa parte della forza rivoluzionaria e chi vede il proprio interesse nel mantenimento della società attuale. Nella versione marxista, ciò è ovviamente determinato dai rispettivi interessi economici e non è davvero possibile parlare di scelta (senza la quale il soggetto rivoluzionario e l’inevitabilità/determinismo apparirebbero costruiti sulla sabbia). Senza una rottura sul piano del contenuto, né la moltitudine né la guerra civile possono assicurarci di non essere delle continuazioni del progetto capitalista, di non essere semplicemente nuove forme d’apparenza dei meccanismi autoritari. Bisogna pur riconoscere che, a partire dalla loro nascita, il capitalismo e lo Stato si sono dimostrati piuttosto dotati nel compito di soffocare la resistenza rinnovandosi di volta in volta. Attraverso il recupero e la repressione (e sacrificando, se necessario, una parte di se stessi) sono riusciti ad adattarsi e a restare in vita. Ed è proprio perché non sono corpi parassitari, ma penetranti in tutti i rapporti sociali, che sono stati coronati dal successo. Ecco perché l’insurrezione (individuale) deve necessariamente andare di pari passo con una critica di ogni autorità e con la volontà di costruire altri rapporti sociali. Dobbiamo affermare questa rottura in quanti più momenti è possibile per evitare, sia in quanto individui che nella nostra lotta, di lasciarci trascinare da meccanismi autoritari.
La democrazia non è più quell’orizzonte insuperabile. Non è più una evidenza. La pace sociale è ogni giorno un po’ più chiaramente una pace imposta attraverso il ricatto del lavoro (e l’accesso al denaro per sopravvivere e “vivere”/consumare) e la repressione. Non basta più voler provocare delle crepe nel muro della pace sociale. Penso che oggi la sfida sia più grande. La pace sociale comincia a creparsi in tanti punti. Il malcontento e la rabbia montano. Ed i predicatori religiosi e nazionalisti sono pronti a reclutare. Noi dobbiamo essere pronti a evidenziare che la solidarietà, l’auto-organizzazione e l’azione diretta possono rafforzarci. Che sono idee vive che possono darci forza di fronte al nulla dell’esistenza capitalista. Dobbiamo anche essere capaci di tessere legami fra i gruppi che sono separati socialmente e/o geograficamente. Dobbiamo sviluppare una creatività d’agire per attaccare il potere sotto tutte le sue forme e soprattutto far uscire i conflitti dai loro territori tradizionali per darne una dimensione più ampia. Oggi possiamo affermare «Noi vogliamo la rivoluzione», perché questa parola non è vuota, ma al contrario è qualcosa a cui si può dare significato ogni giorno di più.
_Anon_