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Per seguire i nostri sogni

Ognuno di noi ha una fisionomia e delle attitudini speciali che lo differenziano dai suoi compagni di lotta.

Così, non siamo stupiti dal vedere i rivoluzionari tanto divisi nella direzione dei lori sforzi.

(…)

Ma non riconosciamo a nessuno il diritto di dire: «Solo la nostra propaganda è quella buona; fuori di essa non v’è salvezza». È un vecchio residuo di autoritarismo nato dalla vera o falsa ragione che i libertari non devono tollerare.

Emile Henry

 

Guardandoci intorno, non possiamo che provare un inebriante moto di gioia nel vedere che in molti si rivoltano, contro lo stato attuale delle cose. Chi, stanco di continuare genuflesso ad ingoiare la solita oppressione quotidiana cerca di sollevarsi contro il dominio, non può che farci muovere qualcosa che visceralmente sentiamo accomunarsi ai nostri desideri. Finalmente i tanto attesi fuochi di rivolta stanno divampando, questi non ci dovrebbero cogliere impreparati. Dovremmo essere in grado di analizzarli con tutto ciò che comporta, cogliendo il coraggio e la fierezza degli insorti così come i loro limiti, insistendo su ciò che ci accomuna così come su ogni differenza. Partendo dai nostri desideri potremmo elaborare un come, un dove, e un quando vogliamo esserci, tenendo ben salde le nostre aspirazioni. Creare l’occasione per sviluppare prospettive rivoluzionarie, discuterne, darsi il tempo e lo spazio per farlo, porta sicuramente ad una crescita e a un arricchimento. Il saper interpretare gli accadimenti, così come il saper spingersi oltre, il porsi il problema di come il tutto non si esaurisca a breve, o di come da un’insurrezione non si passi ad una guerra civile, ci può aprire le porte per ideare il nostro intervento in lotte esistenti che si stanno propagando. Sarebbe necessario essere capaci di perpetuare nel tempo e nello spazio quei momenti di rottura intensi, ma fugaci. Evitare, come spesso accade, che la lotta rimanga intrappolata nella propria specificità; evidenziare come una lotta parziale sia un’opportunità, che funga da testa di ariete per sovvertire l’esistente e solo non arenandosi nelle rivendicazioni potremo comunque tendere al nostro fine.

Ci sembra opportuno quindi,soffermarci su come fino ad adesso alcuni degli anarchici si sono posti di fronte a tutto ciò, non per arenarci in una critica, ma come possibilità di riflessione e superamento dei limiti.

 

Lo sbarco continuo e sempre più consistente di uomini e donne che sfuggono dalla miseria o dalla repressione brutale nei loro paesi, va a “inserirsi” in un equilibrio occidentale già traballante. Le rivoluzioni di cui sono stati artefici, ci portano spesso a pensare di poter i qualche modo traghettare la loro “opera rinnovatrice” qui in Europa, affibbiandoli un ruolo di “soggetto rivoluzionario” che con tutta probabilità non si sentono e non desiderano. Le ansie frustrate, di compiere quella rivoluzione da sempre agognata, fanno imbastire complessi ragionamenti e astruse teorie sulla pelle di coloro che, già stanchi di una vita non semplice, cerca+no probabilmente una pace che qui non potranno trovare. Certo, non tutti cercano pace e per questo è da tener presente che ciò potrebbe aprire delle prospettive di conflitto sociale sempre più acute, ma non è detto che avvenga così come noi lo auspichiamo.

Si è cercato in tutti i modi di trovare un canale di comunicazione con queste persone. Si è provato in ogni maniera a porsi come interlocutori privilegiati, improvvisandosi, nella maggior parte dei casi, in fautori di una sterile carità assistenzialistica. Si è creduto di propagandare il metodo dell’autorganizzazione finendo poi col divenire “gestori” dei loro bisogni, illudendosi così di creare dei rapporti che li avvicinino ad istanze antiautoritarie. Ciò che si cerca in loro è una radicalità che sfugge in questo stagno di immobilismo provocato dal benessere relativo di cui siamo, nostro malgrado, impregnati.

I figli delle rivoluzioni del Magreb, si sollevano per dei motivi che sentono appartenerli, per abbattere quelle dittature che li opprimevano da decenni. Hanno distrutto carceri e tribunali, commissariati e caserme. Qui difficilmente lotteranno per l’abbattimento del regime democratico, non avendo di esso nessuna conoscenza, più facilmente si scontreranno, come più volte è già successo, per un minimo di riconoscimento e di diritto. Cosa del tutto comprensibile.

 

Ai margini dell’occidente democratico, in cui un miraggio di relativa agiatezza tiene compressi milioni di persone stipate in ghetti periferici, si stanno susseguendo, negli ultimi anni, sempre più frequenti sommosse. I giovani delle periferie delle grandi città, decidono di dare sfogo alla loro rabbia, il disordine diffuso si propaga, si saccheggiano grandi magazzini, si affrontano gli sbirri, si distrugge, si incendia, ci si muove agilmente in piccoli gruppetti, mettendo a ferro e fuoco tutto quello che si trova sul cammino. Ma cosa vogliono? Non lottano certo per una rivoluzione che sovverta i rapporti sociali esistenti, fatti di gerarchie ed esclusione, anzi di gerarchie e ruoli si nutre il loro quotidiano. La loro collera è espressione di possibilità negate, della frustrazione di sentire inaccessibile ogni possibile inclusione. La loro ira deriva dal fatto di aver visto brillare tanto da vicino un benessere da cui sono poi sistematicamente tenuti alla larga.

Chi é nato sotto la stella del colore sbagliato, quelli che non devono uscire dal concesso, quelli che sono solo anonimi numeri, quelli che non contano, quelli che da generazioni e generazioni non emergono, decidono di esprimere la propria rabbia e divengono incontrollabili.

Li abbiamo visti “giocare”, e il fatto che non scherzassero ci ha affascinati. Avremmo voluto prendere parte alle loro feste incendiarie e andare oltre, ma sappiamo che saremmo degli estranei, degli intrusi. Uniformarsi a qualcuno che è distante da noi, con i propri vincoli culturali e religiosi è quantomeno assurdo, come assurdo sarebbe attribuire loro prospettive che sono le nostre.

 

Le lotte che incontriamo, ultimamente, prodotte in risposta ad uno Stato sociale che ha dei problemi a mantenersi incontestato, hanno un carattere parziale e tendono a conservare. Si notano svariati movimenti tesi a conservare il posto di lavoro, altri il diritto allo studio, in molti il diritto al futuro, chi vuole garantita la propria pensione, chi vuole conservare un’aria che non uccida troppo velocemente o un territorio non troppo devastato. Varie categorie sociali e raggruppamenti a carattere territoriale cominciano a rumoreggiare sempre più insistentemente. Lavoratori esausti che occupano le fabbriche e scendono in piazza, più timidi rispetto agli studenti, che regalano giorni di sollevamenti che sembrava difficile far rientrare nella normalità, “calorosi” abitanti si oppongono appassionatamente a rifiuti e discariche, altri alla costruzione di strade e ferrovie.

Il regime democratico non funziona come dovrebbe non riuscendo a garantire quel minimo di benessere al quale aveva abituato, la paura di perdere qualcosa spinge tutti, anche i più ligi cittadini a scendere in strada, ad indignarsi e a salire su tetti.

 

In questi tempi di rinnovamento continuo, tutto deve adattarsi, deve essere svecchiato. Lo stato attuale della società ha portato ad un livello di alienazione così capillare e potente da aver infettato gli individui fin negli interstizi più profondi del proprio animo. Le nostre aspirazioni ad una vita altra sono diventate incomprensibili ed assurde, così da non permetterci più una facile comunicazione. Gli anarchici non sono riusciti a stare al passo, con i tempi, pensano alcuni.

Altri, invece, cominciano a pensare che la critica antiautoritaria sia andate troppo oltre, che nel seguire un proprio percorso teorico pratico si sia corso, quando invece si doveva camminare, per permettere così alle masse di starci dietro. Semplici, dinamici, abbordabili guadagnando così riconoscimento e credibilità, ecco che gli anarchici si sono fatti conquistare dalla logica del quantitativo. In troppi hanno creduto che un intervento nei movimenti sociali debba rassomigliare più ad una campagna rinchiusa in una specificità che avvicina facilmente ad una comprensione massiva ed ad una vittoria tangibile. In troppi si sono mimetizzati, provando ad essere un po’ più umili, passando da contenuti anarchici a qualcosa di più limitato e mirato secondo le occasioni. Essendo un po’ più accondiscendenti, a scapito solo di qualche dettaglio un po’ troppo ardito, che potranno sempre ripresentare in seguito, qualcuno ha pensato di poter dirigere o integrare lotte parziali e rivendicative. Ci capita sempre più di frequente di incontrare chi ci dice che adesso possiamo in tanti quello che non potevamo in pochi. Credendo di poter far tacere ciò che differenzia e le aspirazioni più profonde, si sono convinti che sia sufficiente la forma ad esprimere la radicalità della lotta e il numero a renderla più forte, nell’illusione del consenso. C’è da fare, troppo da fare – si dice – per perdersi in discussioni inutili che creano solo divisioni. È tempo di stare insieme.

L’affinità, un tempo ritenuta fondamentale per organizzarsi l’agire, ora la si considera come un orpello curioso, qualcosa di simile ad un soprammobile stravagante, bello a vedersi, ma di scarsa utilità. Finalmente quando le acque cominciano ad agitarsi, preannunciando una possibile tempesta, viene messa via, relegata in soffitta insieme a tutto ciò che può essere di intralcio alla concordia con il soggetto rivoluzionario di turno. Certo non può trovare spazio dove l‘assemblea cerca un linguaggio comune e una condivisione di intenti. Là, dove la maggioranza ha tutte le ragioni e l’individuo nessuna. Dove il consenso stride irrimediabilmente con il desiderio.

L’individualismo è divenuto sinonimo di solitudine, autismo imputabile all’incapacità di farsi comprendere o anche solo ascoltare, la nostra critica è divenuta segno di chiusura, espressione di un’intransigenza estrema nei confronti di chi invece avremo dovuto tollerare, o imparare a conquistare.

Per noi, considerarsi unici non è inconciliabile con il lottare assieme, spinti dal motore della libertà. Non vogliamo attendere che le masse siano «coscentizzate», tantomeno vogliamo attendere di aver il permesso e dei tempi prestabiliti per criticare ed agire. Quando dovremmo associarci a qualcun’altro non potrà per noi, essere determinato dall’opportunismo, dalla solitudine o dal senso d’impotenza, ma da una reale e reciproca concordia di metodo e finalità. Altrimenti preferiremmo continuare per la nostra strada, forse più lunga e solitaria, ma che sia veramente per la nostra rivoluzione.

Non vogliamo scindere il contenuto dalle pratiche, perché riteniamo che il metodo debba essere espressione del mondo che desideriamo, un mondo senza né autorità né delega, senza concessioni

né compromessi, ma un mondo fatto di individui che possano e vogliano determinarsi. Siamo convinti di non aver bisogno di smuovere o guidare chichessia , ci sentiamo messaggeri delle nostre voci, promotori delle nostre tensioni che mal si conciliano con gli accordi, incuranti del numero e del consenso, ci piace pensare che i nostri affini, che avranno voglia di sovvertire questo esistente, li troveremo strada facendo, non cercandoli ossessivamente, ma con un movimento reciproco ci incontreremo per arrivare a toccare i nostri sogni. Vorremo poter essere in grado di infliggere dei colpi al sistema di dominazione vigente, trepidanti nello scoprire ogni suo punto nevralgico, approfittando di ogni vulnerabilità e dell’interruzione della sua normale amministrazione. Potremo si, approfittare delle scintille, potremo anche riscaldarci intorno ai falò, ma vogliamo di più e questo si avrà solo se ci preoccupiamo di farlo avvenire.

 

Due individui al-difuori.

Category: italiano

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