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Schiarite

Distruggere ringiovanisce.
Walter Benjamin

L’unico capitale che il proletariato […] abbia come tale accumulato nella storia, è la spinta latente della sua collera, globalmente negatrice dello “stato delle cose”, la sua latente possibilità concreta di rovesciare con la violenza lo stato delle cose e affondarlo una volta per sempre nel passato storico, con tutta la sua cultura, tutta la sua verbalizzazione razionalizzante, la spettacolare organizzazione delle apparenze.
Giorgio Cesarano, Gianni Collu

Mi allontano da quelli che aspettano dal caso, dal sogno, da una sommossa la possibilità di fuggire l’insufficienza. Assomigliano troppo a coloro che in altri tempi si sono affidati a Dio allo scopo di salvare la loro esistenza mancata.
Georges Bataille

Trent’anni di controrivoluzione sono finiti.
Quell’assalto al cielo che ha animato le esperienze più radicali degli anni Settanta torna a spaventare, con la sua carica di incompiuto, i sonni dei tecnocrati, dei benpensanti, dei cittadini fieri di esserlo. Questa società, che sopravvive al proprio crollo solo come gigantesca infrastruttura, come dispositivo poliziesco, come teatro d’ombre, pensava che a tener lontani i poveri dalla loro potenza e dai loro simili bastasse un mare di distanza, un mare di telecamere e di uniformi. Pensava che lo sviluppo diseguale, il ricatto del debito internazionale, le camorrie tecnomilitari, i massacri regionali fossero un programma applicabile ancora a lungo. Ammazzare quanta più umanità in esubero possibile, vendere armi, controllare i movimenti di opposizione sono pratiche che hanno reso bene, soprattutto quando l’ideologia della liberazione nazionale si prestava al gioco. Ma quel tipo di guerra tra Stati e contro-Stati non sembra bastare più.
La mobilitazione totale imposta dal dominio planetario ha dato il via, come suo contraccolpo, ad un gioco ben più pericoloso: quello delle corrispondenze.
La sommossa di Londra e poi delle altre città inglesi è stata la miglior risposta alle insurrezione nel Nord Africa. Un gesto di corrispondenza che riprende ciò che è accaduto nelle banlieues francesi nel 2005 e in Grecia nel 2008. Un gesto che rinvia alla sommossa di Tirana della primavera scorsa, che ritorna in un Cairo tutt’altro che pacificato, che si allarga a Santiago del Cile. Un giovane assassinato dalla polizia non è, purtroppo, una novità. Ciò che è nuovo, invece, è la collera che incontra. La stessa degli shebab dei territori palestinesi. Non è la vecchia solidarietà internazionalista, non è il progetto di portare la guerriglia antimperialista nelle metropoli occidentali, nel ventre della bestia. È qualcosa di diverso. È un modo di rispondere alla stessa guerra, alla stessa vita incapsulata e oscura, alla stessa mancanza di senso.
Come appaiono patetici i tentativi delle agenzie di stampa e degli analisti salariati di prestare lodevoli intenzioni democratiche alla “primavera araba” e di bollare come esplosione di un malessere assurdo e incomprensibile la rivolta di Tottenham, Enfield, Brixton, Hackney, Peckham.
Cosa vogliono questi giovani dei quartieri proletari, sia autoctoni che immigrati? Non ce l’hanno forse già la democrazia? Sì, ce l’hanno. Ma la democrazia reale, benché abbia sfruttato la loro forza e segnato col ferro i loro corpi, non ha ancora distrutto la loro volontà di riscossa, non ha ancora spento definitivamente le loro anime ardenti.
A partire in fiamme non sono solo commissariati e banche, ma anche il gigantesco deposito della Sony di Enfield. 22 mila metri quadri di cemento. Sembrava in grado di tener ancora a bada la gioventù per molto tempo, isolata e con le cuffie alle orecchie. Invece, assieme alla polizia, i colpi mirano anche l’industria del divertimento di massa. Alienazione consumistica e manganello: le due morse che schiacciano ogni vita, ogni gioventù. “I grandi palazzi e le ampie strade, il cemento e l’acciaio avevano perso la loro parvenza di durevole solidità. Anch’essi erano fragili e potevano essere distrutti. Una torcia, una bomba, una folata di vento abbastanza forte, e anch’essi sarebbero crollati”, scriveva anni fa un ex Weathermen ricordando le rivolte statunitensi degli anni Sessanta.
Migliaia e migliaia di telecamere, 16 mila poliziotti, la minaccia di usare l’esercito non sono bastati. E nemmeno la frontiera interna. Dopo giorni di sommossa nei quartieri poveri, la rivolta ha sfondato le porte di lusso di Brent, Ealing, Camden, Nothing Hill, Oxford Circus. Le zone di Wembley (addio alla partita Inghilterra-Olanda!), dei centri commerciali, della moda, della neo-vita radical-chic. La classe pericolosa arriva fin sotto le case dove vive imprigionata la minoranza tecnoburocratica degli inclusi, e ne libera l’ingrata gioventù, ormai anoressica di merci e spettri.
Questi non sono degli indignati, versione saltellante dell’impotenza cittadinista, sono degli arrabbiati, dei collerici. Come disse quel tale, “c’è della plebe in ogni classe”, visto che ad essere colonizzata non è più solo una parte del pianeta o ciò che resta della società, bensì la nostra intera vita, messa al lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro.
Questi partigiani della vita offesa e diminuita si uniscono nelle viscere – nella propria corporeità insurrezionale – ai rivoltosi d’ovunque. La crisi economica, la scuola pubblica a pezzi, i genitori schiacciati e soli – balbetta la sociologia di sinistra, alla ricerca di un riformismo fuori tempo massimo. Già sentite, quelle spiegazioni. Brusìo, nulla più.
L’insurrezione, il possibile nella e contro la storia, è di nuovo fra noi.

Già negli anni Settanta qualche allevatore di assassini in cravatta e in uniforme sosteneva che la nuova guerra deve giocarsi su tre movimenti. Primo, la repressione senza indugi di ogni gesto d’insubordinazione, il quale, in un ordine sociale implacabile quanto fragile, può portare dritto all’insurrezione. Secondo, l’assunzione strategica della fine di ogni distinzione tra civile e militare per assuefare la popolazione alla presenza crescente di soldati. Terzo, la creazione di movimenti per la pace che rifiutino la violenza, di modo da isolare e colpire chiunque fuoriesca dalla democrazia-mondo.
Si può dire che ci siamo. Mangiare per strada, sedersi sulle panchine, radunarsi nei cortili delle case è vietato in sempre più città. Non solo per far trionfare lo spazio della merce e della speculazione a dispetto dell’ingombranza umana, ma perché l’ordine della separazione e dell’isolamento teme la natura sovversiva di ogni condivisione. Chi condivide qualcosa è ormai un nemico dello Stato.
L’indistinzione civile-militare è un fatto compiuto, nella produzione, nella ricerca, nel controllo, nella progettazione di case, palazzi, quartieri. Tutti gli esperimenti coloniali (urbanistici, polizieschi, antropologici, strategici) hanno come nuovo e più ampio laboratorio le nostre città.
Provare a creare o infiltrare i movimenti di opposizione contro regimi un tempo alleati e ormai decrepiti è da sempre una tecnica collaudata. Se i ribelli siriani possono tranquillamente venir massacrati, a quelli libici si può prestare qualche bombardamento della Nato per rilanciare la posta nel poker geopolitico delle spartizioni. Qualche Consiglio Nazionale Provvisorio, costruito d’accatto per i media, lo si trova in fretta. Ma non è detto che le popolazioni insorte – stante il vento che tira ovunque – stiano nei ranghi. Anche sul piano interno, meglio una chiara e democratica indignazione oggi, che un’opaca e ingovernabile insurrezione domani. Ma quando l’indignazione arriva persino in Israele, dopo cinquant’anni di storia, non è detto che l’occupazione dei territori palestinesi continui a rimanere un altro discorso.
Alla guerra militare sta subentrando sempre più la guerra civile, che comporta almeno tre condizioni favorevoli per i rivoluzionari (favorevoli, sia chiaro, non deterministicamente garantite). La contestazione sul campo del monopolio statale della violenza. Il passaggio carsico di sovranità dallo Stato all’individuo. L’allentamento del controllo, cioè il rimescolarsi delle amicizie e delle inimicizie, delle affinità e delle incompatibilità su un piano di immanenza.
L’invito implicito è quello di disfarsi di ogni ideologia insurrezionalista – con i suoi feticci, la sua retorica, le sue analisi sempreuguali – per affrontare teoricamente e praticamente, eticamente e materialmente l’insurrezione come possibilità storica.
Siamo forse usciti da quel lungo deserto che faceva della rivolta una testimonianza di resistenza umana, un metodo da non mettere in soffitta, un’arma per attraversare le lande gelate dei rinnegati, dei rifluiti, dei dissociati, dei rassegnati. Tutto quell’apprendimento riottoso non deve cedere il passo ora di fronte agli assalti che individualmente ci chiamano.

Se penso che nei primi anni Novanta qualche compagno propose un’Internazionale Insurrezionalista Antiautoritaria che avesse come terreno d’intervento l’area del Mediterraneo per le enormi possibilità insurrezionali che offriva, rimango stupito da quanto la realtà si sia incaricata di confermare la giustezza di quell’ipotesi, all’epoca accantonata a causa di incomprensioni, malumori, bizze e manovre repressive.
Se penso che di anni e anni di discussioni su gruppi d’affinità e organizzazione informale è rimasto a malapena un modo di rapportarsi tra compagni, disattendendo quasi del tutto l’altro piano: quello delle strutture di base composte sia da compagni sia da altri sfruttati…
Se penso che per organizzazione informale s’intendeva l’esatto contrario delle sigle e delle federazioni, ma anche dell’isolamento rancoroso e autocompiaciuto…
Ma come Bakunin parlava del “movimento anarchico delle popolazioni” (in francese anarchique e non anarchiste), così oggi è possibile avere come orizzonte concreto un movimento insurrezionale, non semplicemente un milieu insurrezionalista.
Tanto più che nelle situazioni di guerra civile non è certo con i simboli o con le chiacchiere che si va da qualche parte.

La guerra civile appare là dove la finzione della società, del patto, dello scambio, dell’assicurazione reciproca crolla ed emergono, fuori e dentro gli individui, le potenze, le inclinazioni, le condizioni di vita, le idee e i loro mondi, i mezzi approntati, i diversi clinamen. Messe tra parentesi le normali regole di condotta, la muta coazione economica, le liturgie politiche, il gioco è di nuovo aperto. Non più ripiegata su di sé, la vita mostra le proprie scanalature, gli spigoli, i nodi, le fenditure. Il primo gesto, tentazione a lungo trattenuta, è quello di distruggere. Si distrugge ciò che si conosce, ciò che si espone al tatto. Lo spazio smette di essere qualcosa di illimitato e insieme compresso – come la “società” -, per farsi luogo, territorio. Fuoriuscito dal mondo virtuale delle protesi tecnologiche, l’individuo collerico fa mente locale. L’umiliazione incorporata nei viali inabitabili, nei centri commerciali, nei commissariati, nei vagoni della metropolitana, negli uffici di collocamento, nei call center viene colpita a sassate, demolita, incendiata. L’essere vivente riprende il sopravvento sul mondo reificato, sullo Stato delle Cose. Il sentimento di vuota intercambiabilità che segna la sopravvivenza capitalizzata spinge molti rivoltosi alla più paradossale delle passioni: la pulsione alla propria (e altrui) sacrificabilità. Forse proprio lì, in quel paradosso, si gioca lo scontro tra la liberazione e la barbarie, tra la condivisione delle differenza e l’identificazione con una nuova autorità. Tutte le spiegazioni economicistiche o antropologiche del nazionalismo, dell’integralismo, del potere lasciano questo vuoto – il salto tra la meschinità dell’interesse e l’ignoto (e la morte). La guerra civile – che non è solo crollo giuridico, economico, politico, ideologico e valoriale – allarga proprio quel vuoto, coperto a fatica da ciò che chiamiamo cultura. Vendetta, risentimento, disillusione, malanimo… Non ci piace quello che ne esce? Cosa pensavamo, che fosse tutto miele? No, è feccia, il solo terreno fertile per la libertà.

Qualcuno ha detto che la rivoluzione non è un problema di organizzazione, bensì ha un problema di organizzazione. Ben detto.
Avere delle ipotesi. Circoscritte, ma tenaci. Affinare ciò che di unico, di appassionante e di comune abbiamo da opporre e da sottrarre al dominio e al suo mondo.
La nostra linea del fronte è piena e vuota allo stesso tempo, è là dove attacchiamo e viviamo, per attaccare più in là, e più in là ancora vivere. Il dominio non è un’escrescenza esterna al “sociale”, ai nostri rapporti, a noi stessi; è l’infrastruttura dell’alienazione, l’universo materiale dell’isolamento, la miseria incorporata negli oggetti, nel lavoro morto, nello spazio urbano, l’impotenza incastonata nel linguaggio, la frustrazione che presidia ogni immagine del possibile, l’ordine dell’identico. Non c’è sommossa che ci faccia, in un sol colpo, altri da ciò che siamo. La rivolta è solo l’inizio.
Fine delle grandi compagini organizzative. La ristrutturazione informatica della produzione e la trasformazione urbanistica (cioè l’assassinio delle città storiche) hanno polverizzato ogni spazio di autorganizzazione duratura degli sfruttati. Ma in passato quelle intelaiature organizzative si sono rivelate sempre, nello stesso tempo, gli strumenti del recupero politico-sindacale e le basi del nuovo potere. Oggi non esiste forza esterna al dominio in grado di irreggimentare una rabbia immediatamente antisociale. Non è un dato storico da poco, come sanno tutti i consiglieri del Potere. L’organizzazione per affinità è la modalità più adeguata alla guerra civile, quella che emerge spontaneamente nelle bande di quartiere. Un collegamento orizzontale delle rivolte si sta dando anch’esso in modo piuttosto spontaneo, come abbiamo visto in Egitto, in Tunisia, in Libia, in Inghilterra. Che questo collegamento orizzontale diventi anche la prospettiva di un mondo diverso, e non solo un’esigenza pratica immediata, è altra faccenda. Ma più che dalle macchinazioni esterne, un movimento insurrezionale deve guardarsi oggi dalla debolezza interna. Il dominio attuale è fragile perché strutturalmente interdipendente (pensiamo alle informazioni, all’energia, alle banche), ma allo stesso tempo vischioso, parassitario, granulare. Organizzarsi significa innanzitutto: durare. Occupare lo spazio sottratto alla sovranità dello Stato, far approdare all’intelligenza dei sensi e alla parola – alla tessitura etica – il tempo sospeso della rivolta, rendere inutile lo scambio mercantile.
Di sommossa in sommossa, di distruzione in distruzione, l’attività umana, tragicamente menomata dalla tecnosfera in cui viviamo, ritroverà il proprio aver luogo e farà il proprio tempo.
A partire da piccoli e significativi contatti, dobbiamo conoscere il territorio: dai vicoli agli androni, dalle banche dati ai rifornimenti di armi, dai collaborazionisti nei quartieri ai depositi di pasta. Guerra civile significa innanzitutto fine della neutralità, assunzione consapevole del vecchio adagio eracliteo: “anche i dormienti reggono l’ordine del mondo”.
Ma la guerra civile apparecchia anche le condizioni per le peggiori chiusure identitarie, facendo dell’integralismo non tanto un “arcaismo tecnicamente equipaggiato”, quanto una risposta perfettamente contemporanea. Non solo per l’equazione oppressore=infedele con cui seduce, ma per la comunità materiale (mense, bombole del gas, assistenza) che si premura di fornire.
Anche in questo senso, autonomia e rivolta sono sempre più strettamente collegate. La nostra dipendenza dall’organizzazione tecnologica della società è schiacciante. Distruggerne i gangli è necessario, ma non sufficiente. E questo non per le prospettive di dopodomani, ma per la rivolta di oggi. I blocchi selvaggi che hanno paralizzato per settimane Buonos Aires, nel 2001, hanno rivelato quanto sia fragile e parassitaria la vita nelle metropoli: dopo qualche tempo, non c’era più da mangiare. L’ordine di interrompere quella forma di lotta non è partito da qualche capo politico, ma dalle fauci stesse del mostro urbano. Riprendere contatto con le mani e con la terra è un’esigenza rivoluzionaria fondamentale. (Questione che qui sfioro soltanto, ma su cui sarà importante tornare).

Trent’anni di controrivoluzione sono finiti.
Il sabotaggio può tornare ad essere altro dalla testimonianza, dal gesto estetico o dalla promozione del proprio gruppo, per farsi blocco effettivo di un ingranaggio, di un dispositivo, di un movimento di truppe, la dimostrazione pratica della distruttibilità del sistema e il varco in cui l’intelligenza facinorosa e la condivisione sediziosa possono sgattaiolare, uno squarcio di contro-mondo che libera territori nelle città come negli animi.
Il cappuccio può diventare altro dal segno identitario di una componente politica, per farsi forza d’urto dell’anonimato, di ciò che è speciale, cioè proprietà di nessuno, appropriabile da chiunque.
La gioventù riottosa rivela la propria autonomia armandosi dei propri mezzi (di attacco, di autodifesa, di cura), rifiutando il lavoro come l’ozio amministrato.
Quando qualcosa accade, esserci, sapendo che a volte il modo migliore di esserci è andare altrove, ad aprire altre crepe, a forzare altri depositi, a sabotare altre macchine di morte.
Nella consistenza delle situazioni, ognuno scoprirà i suoi.
Il resto è malaugurio.

Giovanni Marrone

Prospettive apocalittiche

La questione rivoluzionaria è una linea di frattura più o meno netta in seno al movimento anarchico internazionale, in certi luoghi più che altrove.

Da un lato LA rivoluzione, miraggio di un’oasi lontana, per la quale noi avremo il tempo di crepare più volte di sete nel deserto, prima di vederne una qualsiasi realizzazione materiale. Questa visione della rivoluzione è da considerarsi come evento da attendere tranquillamente, dato che in ogni modo non dipende dalle nostre azioni, ma da un risveglio delle masse. Per i rivoluzionari di questo tipo le condizioni non sono mai veramente coincidenti per la rivoluzione, ed ogni tipo di offensiva che non sia “di massa” sarà il prodotto di un’impazienza prematura e avanguardista che si sostituirebbe alla parola e agli atti dei veri soggetti rivoluzionari, che non sarebbero i rivoluzionari…

Dall’altro lato, l’anti-rivoluzionario, che fustiga i rivoluzionari con l’accusa di non far altro che attendere, temporizzando la rivolta, impedendo a coloro che desiderano vivere l’anarchia qui e adesso, di farlo. Di fatto la rivoluzione, come avvenimento concreto sarebbe una sorta di miracolo che viene auspicata ma che non arriva mai, un paradiso lontano.

Sfortunatamente, dato che l’epoca lo esige, di prospettive apocalittiche, cioè millenariste, se ne sono sviluppate a destra e a manca, e contrariamente a questo passato lontano, si ritrovano non solo in ambienti mistici, cospirazionisti o in seno a fanatismi religiosi. Siamo arrivati ad un punto dove la questione della “fine del mondo” ossessiona le discussioni in maniera più o meno seria. La fine del mondo per il 2012, il giudizio finale, il ritorno del messia, il terzo occhio e altri discorsi mistico-religiosi si disputano il podio escatologico con la prospettiva terrificante di un olocausto nucleare o di una guerra mondiale o civile totale. Ma da qualche parte sul podio, circola l’idea di un sistema che crollerebbe da solo sotto il peso dei suoi abusi. Il crollo ineluttabile del capitalismo dei marxisti rivisitati al limite del ventunesimo secolo e delle sue “crisi” economiche, sociali ed ecologiche. Un crollo ipotetico accolto sia con speranza che con timore. Certo, quest’ipotesi mi pare ben poco seria, il capitalismo attraverso la sua storia avanza di crisi in crisi, sempre rinforzato di ristrutturazione in ristrutturazione.

Questa visione della rivoluzione che si metterebbe in moto tutta da sola, senza di noi, senza di me e in qualche maniera sotto l’impulso o spinta del vecchio mondo che si autodistrugge, non offrirebbe come prospettiva immediata che l’attesa. Mettere ogni nostro desiderio in un futuro inevitabile permette più facilmente di accettare l’esistente. La credenza di Marx nell’ineluttabilità del comunismo lo spinge, lui e i suoi discepoli, a proporre l’industrializzazione e lo sfruttamento capitalista come delle tappe necessarie al suo avvento, l’ideologia dell’ineluttabile crollo finisce forzatamente per giustificare da una parte una prassi basata unicamente su “autodifesa sociale” per rispondere al nemico e dall’altra l’evasione da questa realtà che incontriamo quotidianamente, molto concretamente.

Ben inteso, questa visione di un vecchio mondo che crollerebbe sotto il proprio peso, rende obsoleta la necessità insurrezionale, non lasciando spazio che per un attesa, un porsi sulla difensiva. L’”autodifesa sociale” (squat, modi di vita alternativi, comunità, sopravvivenza…) termine alla moda, ci darà tutta la sua forza, la miseria dell’ecologismo con la preservazione reazionaria del “pianeta” ci farà tornare ad uno stato precedente (ma quale?); o ancora potremo consacrarci alla difesa delle “popolazioni indigene”, o all’antirepressione condizionati unicamente dal nemico, ecc.

Poiché in ogni modo, non c’è bisogno di attaccare le strutture dello Stato, del capitalismo e dei meccanismi di dominazione che reggono i rapporti umani, dato che questi sono votati al crollo, come per magia.

In fondo i dibattiti estremamente puntigliosi che consegnano i partigiani dell’ineluttabile crollo del sistema non mi interessano veramente, che siano essi “comunitaristi” o anarchici. Ciò vuol dire che qualsiasi sia la conclusione, la mia visione delle cose non ne risulterà in niente alterata. Se il capitalismo dovesse realmente crollare tutto solo, questo non cambierebbe per niente il fatto che io non desidero attendere in alcun modo questo evento pazientemente, continuando a vivere questa miserabile vita di mediocrità che mi si offre di già nell’attesa.

Io sono un anarchico, un rivoluzionario, non credo pertanto che LA rivoluzione avrà luogo, ne oggi ne domani. Ciò nonostante io tendo verso la rivoluzione, cioè i miei pensieri e i miei atti sono orientati verso un sovvertimento totale di questo mondo, e verso una rottura completa col vecchio mondo. È in ciò che io sono rivoluzionario, non per opportunismo, non c’è niente di peggio, secondo me, di coloro che si dicono rivoluzionari per il solo fatto di essere animati dalla convinzione che la rivoluzione, come avvenimento concreto avverrà durante la loro vita. No, essere rivoluzionario vuol dire portare nella propria attività concreta e nella propria produzione teorica i germi di un altro mondo, così com’è vero che sono indissociabili i mezzi e i fini per arrivarvici.

È innegabile che la vita che viviamo, così come lo stato del mondo sono oggi delle cose terrificanti. Infatti, mi pare quasi inimmaginabile, nelle condizioni nelle quali si trova l’umanità oggi, immaginare un sovvertimento radicale che porterebbe alla fine di ogni autorità. Si può perfino affermare che la prospettiva di un’insurrezione generalizzata oggi, porti in se tanta speranza quanta angoscia. In questo mondo dove si stravolgono le ideologie rancide come il razzismo, i meccanismi identitari e comunitaristi, la sete di potenza, l’avidità, il consumismo, la concorrenza economica o sociale o ancora il sessismo, un’insurrezione darebbe certamente luogo, in più a ciò al quale noi potremmo riconoscere e partecipare, a una grande quantità di eventi tragici e insopportabili.

Detto ciò, mi pare ancora più incongruente e lontano parlare di una rivoluzione anarchica.

Bisognerebbe quindi immaginarsi una rivoluzione di milioni e milioni di anarchici, in una qualche maniera il vecchio sogno degli anarchici aderenti alla C.N.T. che, se è rispettabile come sogno, non è vero dire che una chimera funge da pretesto all’inerzia e all’attesa. Se la rivoluzione o l’insurrezione c’è, gli anarchici non resteranno semplici spettatori. Portare ogni cosa verso la critica dell’autorità in generale, tentare di respingere finché possibile ogni cattivo riflesso appartenente a questo mondo, senza per questo avere il ruolo di poliziotto, ma anche farsi piacere e seguire i desideri di vendetta accumulati, colpo su colpo, tanto contro lo Stato e l’economia che contro la società.

Essere rivoluzionario secondo me, è dunque essere animato, da una tensione verso un’altra cosa. Una tensione che si materializza qui e ora, tutti i giorni, nel più piccolo atto di guerra.

È un imbrago progettuale nel quale ogni atto, anche insignificante, che porta il rivoluzionario, sommato all’identificazione di questo mondo come un ostacolo al progetto rivoluzionario. È anche in un certo qual modo una responsabilità, perché mettersi in gioco nella lotta mi sembra inevitabile. Dichiararsi apertamente rivoluzionario comporta una quantità di rischi e di pericoli. Non bisogna attendere, dato che ci dichiariamo in conflitto con la società, che questa, attraverso lo Stato o meno, cerchi di vendicarsi a sua volta contro di noi. Nella vita le cose sono ben più fini che un tale schema semplicistico.

Questo mondo, lontano dall’autodistruggersi, dovrà dunque essere distrutto, questa è l’opera del rivoluzionario, non potrà essere evitata. Come disse qualcuno, se la questione non è di «fare la rivoluzione» questa diviene «come evitarla?».

 

Un altro rivoluzionario senza rivoluzione

Un soggetto difficile

Un soggetto difficile, si. Un soggetto che può rapidamente volgere alla polemica, sterile o no. Ma questo non è il fine. Non si tratta neanche di un interrogativo esistenziale, di un “chi siamo”, di un “chi sono”. Ho voglia di discutere del movimento anarchico tale quale lo conosco, cioè quello di oggi, immagino che questi meccanismi si applichino ben oltre la nostra epoca o anche ben oltre il movimento anarchico. Ci sono molte cose da dire, ma io amerei parlare in particolare dei rapporti che reggono le relazioni all’interno di questo movimento, tra gli uni e gli altri, attraverso le barriere linguistiche e geografiche. Non vorrei, ciò nonostante, che queste frasi fossero prese per quello che non sono, mi includo tra le persone di cui parlo e i meccanismi che descrivo li riproduco io stesso. La volontà di scrivere queste considerazioni proviene dalle numerose discussioni tra gli anarchici di qui e di altrove, nei contesti più differenti, durante i quali essi/esse hanno sentito la necessità di porsi determinate questioni, di discuterne apertamente senza troppe formalità. Certo, non pretendo di rappresentare questi compagni e compagne, poiché io parto in principio da me stesso. Questo testo è fastidioso, infastidisce persino me. Spero ciò nonostante, discutendo di soggetto tabù che non divenga un tabù esso stesso, o materia di autoflagellazione. Spero anche che in occasione di questo incontro sul libro sovversivo, questo contributo possa essere l’occasione per riflettere su tali questioni, che secondo me sono indispensabili allo sviluppo delle nostre idee e all’incontro con altri indomiti.

 

Innanzi tutto non bisogna illudersi, il movimento anarchico è proprio un movimento, o una movenza, poco importa. Si potrà certo, per molti tra noi, mettere al centro della questione quella dell’individualità e dell’unicità di ogni individuo, e ciò impedirà a questa entità più ampia, il movimento, di sostituirsi alla volontà individuale e ai desideri propri di ciascuno all’interno di questo movimento. Infatti, tutti i gruppi sociali possiedono i propri margini, ciò è la condizione sine qua non del suo sviluppo, della sua auto-delimitazione. Poiché per definirsi bisogna passare da ciò che non siamo e da ciò che ci assomiglia. A partire da questo, l’originalità degli individui e dei gruppi affinitari che si esprime, è spesso normalizzata per entrare in un modello, una sorta di legante comune. Fino a quando la normalizzazione non agisce, come in ogni gruppo sociale, resta il disprezzo o l’ostracismo.

È così che degli automatismi si mettono in opera e non vengono più messi in dubbio. «È così», «non è il momento», «è sempre stato così». Questi meccanismi conferiscono all’interno del movimento, il potere a una manciata di guardiani della trasmissione sacralizzata, detentori della giusta verità e generalmente poco capaci alla messa in questione, malgrado i bilanci che la vita permette di fare, basandosi su decenni di fallimenti assodati. Ho usato la parola potere e aggiungo centralizzazione forzata. Il funzionamento affinitario, che io condivido, ha il difetto, quando è mal dosato, di dare troppo potere agl’individui che possiedono più relazioni, e talvolta più anzianità. Bisogna passare attraverso loro, lui o lei, per organizzarsi, per incontrare altri anarchici, per tutto.

Sappiamo che il potere è nello stesso tempo ansiogeno ed erogeno, attrae e respinge nello stesso momento. Io non parlo del potere istituzionale ma delle relazioni di potere interindividuali. Quando si comincia ad acquisire un po’ di potere, ne vorremo sempre più. Lo schema è semplice e basilare, può operare, tra gli anarchici, scettici di tali questioni, a partire dal momento in cui l’ammirazione e il “carisma” entrano in gioco. Ammiriamo l’attività degli anarchici di vari paesi per delle ragioni quantitative o semplicemente esotiche, ci si rinchiude allora nell’adottare dei modelli: «fare come in Grecia», ecc. Ammiriamo la prosa e il carisma di uno o più compagni (voi che leggete questo testo conoscete tutti un compagno o una compagna che abbia più valore sociale in seno al movimento, rispetto a gli altri). La nascono delle relazioni di potere e si creano delle classi all’interno del movimento, per mezzo delle fini arti della retorica, dello charme e della politica. Infatti il movimento diviene luogo prediletto per le coloro che sanno esattamente ciò che vogliono e che si nascondono dietro degli artifici retorici, degli interrogativi e della discussione per lasciare immaginare un’apertura che in realtà non esiste dato che è vero «è così, e basta».

Di fatto questi meccanismi creano dei leader che finiscono per centralizzare localmente l’attività di un movimento. Chi si sottrae a questa centralità, in una maniera o in un’altra dovrà rispondere della sua mancanza, presentando una giustificazione plausibile per il suo disaccordo o per la sua non presenza a un qualche momento fondamentale del movimento, che si tratti di un’idea, di un luogo (un’assemblea, un locale, una lotta specifica). La mancata partecipazione volontaria a questi sacri momenti collettivi deve essere giustificata, pena essere tacciati di «arroganza». Così, senza aver bisogno di un’autorità riconosciuta, la molteplicità delle idee degli individui è ridotta alle dimensioni di uno o più compagni “carismatici”. L’ostracismo è indissociabile da questi meccanismi; contro coloro che non sono dove dovrebbero, presenti in una determinata lotta, in un determinato luogo, in una determinata assemblea, sono assolutamente degli “sbruffoni” e dei “menefreghisti”, dei “piccoli borghesi”, ecc. Non così lontano da un provvedimento cautelare, si ha l’obbligo di firma. Meccanismi che si possono trovare nelle recenti lotte, un po ovunque, dalla Val Susa alla lotta dei tunisini clandestini a Parigi o la lotta contro i centri di detenzione per stranieri attraverso l’Europa o ancora la “solidarietà internazionale”.

Ho visto molti compagni e compagne gettare la spugna, più semplicemente abbandonare a causa di tali meccanismi. Trovo in questo una mancanza di tenacità, di volontà di creare essi stessi quello che vorrebbero veder vivere. Qualche volta gliene voglio. Ma non posso volergliene completamente per il fatto di aver abbassato le braccia, perché spesso la forza e la tenacità sono dalla parte di coloro che possiedono il potere, dato che in ogni modo, ce ne vuole per ottenerlo e mantenerlo.

A dire il vero, non penso di sbilanciarmi troppo dicendo che sto parlando di qualcosa che noi conosciamo bene all’interno del movimento, i ruoli, i maledetti ruoli. Da un momento e all’altro ci siamo ritrovati ingabbiati in ruoli all’interno dei nostri gruppi. Il manuale, lo scrittore, l’affabile, il tecnico, il teorico, lo scemo, l’intelligente, l’impaginatore, l’attacchinatore, il writer, il kamikaze, il paranoico, il timido, il distratto, il radicale, il moderato, il creativo, tutti con un grado più o meno pronunciato di professionalizzazione. L’importante è uscirne.

Ciò nonostante non desidero negare o appianare le differenze di ciascuno, ogni individuo è animato da delle tensioni, delle passioni e dei gusti differenti, ma una cosa è sicura, non bisogna lasciare il monopolio di tutti gli attributi rispettati a uno solo o a pochi individui all’interno del gruppo, perché è il mezzo più sicuro per farne una capo, talvolta anche senza il suo consenso. Lo sappiamo, lo abbiamo detto e ridetto mille volte, non ci sono padroni fin quando non ci sono schiavi per obbedire loro.

Diffidiamo dunque di ciò che fa si che s’installi il “prestigio” e il “merito” all’interno dei gruppi, così come nelle relazioni tra gruppi. I più vecchi non sono i più rispettabili, la prigione non rende più interessanti, la qualità di un compagno non si quantifica dal numero di vetrine infrante… d’altronde non si quantifica. Il prestigio è gerarchia, e la gerarchia è potere.

Bisognerebbe non aver paura di esporre i propri timori o dubbi, bisognerebbe non lasciarsi impressionare dai dogmi. Non è perché un compagno arriva ad esporre meglio le proprie certezze e un altro i propri dubbi che fa si che questo possieda la verità al suo fianco, prima di tutto perché la verità non esiste, ma anche perché la retorica mostra, da parte di chi la utilizza, la capacità di persuadere e non quella di convincere.

Coloro che sono più abili a esporre le proprie convinzioni, e mi ci includo, hanno dunque una responsabilità se non cercano la presa del potere. In seno al movimento anarchico, i meccanismi di autorità intellettuale devono essere combattuti tanto da coloro che sono suscettibili di produrli, così come da coloro che sono suscettibili di riprodurli.

 

Un anarchico senza l’abitudine di decostruirsi

Per seguire i nostri sogni

Ognuno di noi ha una fisionomia e delle attitudini speciali che lo differenziano dai suoi compagni di lotta.

Così, non siamo stupiti dal vedere i rivoluzionari tanto divisi nella direzione dei lori sforzi.

(…)

Ma non riconosciamo a nessuno il diritto di dire: «Solo la nostra propaganda è quella buona; fuori di essa non v’è salvezza». È un vecchio residuo di autoritarismo nato dalla vera o falsa ragione che i libertari non devono tollerare.

Emile Henry

 

Guardandoci intorno, non possiamo che provare un inebriante moto di gioia nel vedere che in molti si rivoltano, contro lo stato attuale delle cose. Chi, stanco di continuare genuflesso ad ingoiare la solita oppressione quotidiana cerca di sollevarsi contro il dominio, non può che farci muovere qualcosa che visceralmente sentiamo accomunarsi ai nostri desideri. Finalmente i tanto attesi fuochi di rivolta stanno divampando, questi non ci dovrebbero cogliere impreparati. Dovremmo essere in grado di analizzarli con tutto ciò che comporta, cogliendo il coraggio e la fierezza degli insorti così come i loro limiti, insistendo su ciò che ci accomuna così come su ogni differenza. Partendo dai nostri desideri potremmo elaborare un come, un dove, e un quando vogliamo esserci, tenendo ben salde le nostre aspirazioni. Creare l’occasione per sviluppare prospettive rivoluzionarie, discuterne, darsi il tempo e lo spazio per farlo, porta sicuramente ad una crescita e a un arricchimento. Il saper interpretare gli accadimenti, così come il saper spingersi oltre, il porsi il problema di come il tutto non si esaurisca a breve, o di come da un’insurrezione non si passi ad una guerra civile, ci può aprire le porte per ideare il nostro intervento in lotte esistenti che si stanno propagando. Sarebbe necessario essere capaci di perpetuare nel tempo e nello spazio quei momenti di rottura intensi, ma fugaci. Evitare, come spesso accade, che la lotta rimanga intrappolata nella propria specificità; evidenziare come una lotta parziale sia un’opportunità, che funga da testa di ariete per sovvertire l’esistente e solo non arenandosi nelle rivendicazioni potremo comunque tendere al nostro fine.

Ci sembra opportuno quindi,soffermarci su come fino ad adesso alcuni degli anarchici si sono posti di fronte a tutto ciò, non per arenarci in una critica, ma come possibilità di riflessione e superamento dei limiti.

 

Lo sbarco continuo e sempre più consistente di uomini e donne che sfuggono dalla miseria o dalla repressione brutale nei loro paesi, va a “inserirsi” in un equilibrio occidentale già traballante. Le rivoluzioni di cui sono stati artefici, ci portano spesso a pensare di poter i qualche modo traghettare la loro “opera rinnovatrice” qui in Europa, affibbiandoli un ruolo di “soggetto rivoluzionario” che con tutta probabilità non si sentono e non desiderano. Le ansie frustrate, di compiere quella rivoluzione da sempre agognata, fanno imbastire complessi ragionamenti e astruse teorie sulla pelle di coloro che, già stanchi di una vita non semplice, cerca+no probabilmente una pace che qui non potranno trovare. Certo, non tutti cercano pace e per questo è da tener presente che ciò potrebbe aprire delle prospettive di conflitto sociale sempre più acute, ma non è detto che avvenga così come noi lo auspichiamo.

Si è cercato in tutti i modi di trovare un canale di comunicazione con queste persone. Si è provato in ogni maniera a porsi come interlocutori privilegiati, improvvisandosi, nella maggior parte dei casi, in fautori di una sterile carità assistenzialistica. Si è creduto di propagandare il metodo dell’autorganizzazione finendo poi col divenire “gestori” dei loro bisogni, illudendosi così di creare dei rapporti che li avvicinino ad istanze antiautoritarie. Ciò che si cerca in loro è una radicalità che sfugge in questo stagno di immobilismo provocato dal benessere relativo di cui siamo, nostro malgrado, impregnati.

I figli delle rivoluzioni del Magreb, si sollevano per dei motivi che sentono appartenerli, per abbattere quelle dittature che li opprimevano da decenni. Hanno distrutto carceri e tribunali, commissariati e caserme. Qui difficilmente lotteranno per l’abbattimento del regime democratico, non avendo di esso nessuna conoscenza, più facilmente si scontreranno, come più volte è già successo, per un minimo di riconoscimento e di diritto. Cosa del tutto comprensibile.

 

Ai margini dell’occidente democratico, in cui un miraggio di relativa agiatezza tiene compressi milioni di persone stipate in ghetti periferici, si stanno susseguendo, negli ultimi anni, sempre più frequenti sommosse. I giovani delle periferie delle grandi città, decidono di dare sfogo alla loro rabbia, il disordine diffuso si propaga, si saccheggiano grandi magazzini, si affrontano gli sbirri, si distrugge, si incendia, ci si muove agilmente in piccoli gruppetti, mettendo a ferro e fuoco tutto quello che si trova sul cammino. Ma cosa vogliono? Non lottano certo per una rivoluzione che sovverta i rapporti sociali esistenti, fatti di gerarchie ed esclusione, anzi di gerarchie e ruoli si nutre il loro quotidiano. La loro collera è espressione di possibilità negate, della frustrazione di sentire inaccessibile ogni possibile inclusione. La loro ira deriva dal fatto di aver visto brillare tanto da vicino un benessere da cui sono poi sistematicamente tenuti alla larga.

Chi é nato sotto la stella del colore sbagliato, quelli che non devono uscire dal concesso, quelli che sono solo anonimi numeri, quelli che non contano, quelli che da generazioni e generazioni non emergono, decidono di esprimere la propria rabbia e divengono incontrollabili.

Li abbiamo visti “giocare”, e il fatto che non scherzassero ci ha affascinati. Avremmo voluto prendere parte alle loro feste incendiarie e andare oltre, ma sappiamo che saremmo degli estranei, degli intrusi. Uniformarsi a qualcuno che è distante da noi, con i propri vincoli culturali e religiosi è quantomeno assurdo, come assurdo sarebbe attribuire loro prospettive che sono le nostre.

 

Le lotte che incontriamo, ultimamente, prodotte in risposta ad uno Stato sociale che ha dei problemi a mantenersi incontestato, hanno un carattere parziale e tendono a conservare. Si notano svariati movimenti tesi a conservare il posto di lavoro, altri il diritto allo studio, in molti il diritto al futuro, chi vuole garantita la propria pensione, chi vuole conservare un’aria che non uccida troppo velocemente o un territorio non troppo devastato. Varie categorie sociali e raggruppamenti a carattere territoriale cominciano a rumoreggiare sempre più insistentemente. Lavoratori esausti che occupano le fabbriche e scendono in piazza, più timidi rispetto agli studenti, che regalano giorni di sollevamenti che sembrava difficile far rientrare nella normalità, “calorosi” abitanti si oppongono appassionatamente a rifiuti e discariche, altri alla costruzione di strade e ferrovie.

Il regime democratico non funziona come dovrebbe non riuscendo a garantire quel minimo di benessere al quale aveva abituato, la paura di perdere qualcosa spinge tutti, anche i più ligi cittadini a scendere in strada, ad indignarsi e a salire su tetti.

 

In questi tempi di rinnovamento continuo, tutto deve adattarsi, deve essere svecchiato. Lo stato attuale della società ha portato ad un livello di alienazione così capillare e potente da aver infettato gli individui fin negli interstizi più profondi del proprio animo. Le nostre aspirazioni ad una vita altra sono diventate incomprensibili ed assurde, così da non permetterci più una facile comunicazione. Gli anarchici non sono riusciti a stare al passo, con i tempi, pensano alcuni.

Altri, invece, cominciano a pensare che la critica antiautoritaria sia andate troppo oltre, che nel seguire un proprio percorso teorico pratico si sia corso, quando invece si doveva camminare, per permettere così alle masse di starci dietro. Semplici, dinamici, abbordabili guadagnando così riconoscimento e credibilità, ecco che gli anarchici si sono fatti conquistare dalla logica del quantitativo. In troppi hanno creduto che un intervento nei movimenti sociali debba rassomigliare più ad una campagna rinchiusa in una specificità che avvicina facilmente ad una comprensione massiva ed ad una vittoria tangibile. In troppi si sono mimetizzati, provando ad essere un po’ più umili, passando da contenuti anarchici a qualcosa di più limitato e mirato secondo le occasioni. Essendo un po’ più accondiscendenti, a scapito solo di qualche dettaglio un po’ troppo ardito, che potranno sempre ripresentare in seguito, qualcuno ha pensato di poter dirigere o integrare lotte parziali e rivendicative. Ci capita sempre più di frequente di incontrare chi ci dice che adesso possiamo in tanti quello che non potevamo in pochi. Credendo di poter far tacere ciò che differenzia e le aspirazioni più profonde, si sono convinti che sia sufficiente la forma ad esprimere la radicalità della lotta e il numero a renderla più forte, nell’illusione del consenso. C’è da fare, troppo da fare – si dice – per perdersi in discussioni inutili che creano solo divisioni. È tempo di stare insieme.

L’affinità, un tempo ritenuta fondamentale per organizzarsi l’agire, ora la si considera come un orpello curioso, qualcosa di simile ad un soprammobile stravagante, bello a vedersi, ma di scarsa utilità. Finalmente quando le acque cominciano ad agitarsi, preannunciando una possibile tempesta, viene messa via, relegata in soffitta insieme a tutto ciò che può essere di intralcio alla concordia con il soggetto rivoluzionario di turno. Certo non può trovare spazio dove l‘assemblea cerca un linguaggio comune e una condivisione di intenti. Là, dove la maggioranza ha tutte le ragioni e l’individuo nessuna. Dove il consenso stride irrimediabilmente con il desiderio.

L’individualismo è divenuto sinonimo di solitudine, autismo imputabile all’incapacità di farsi comprendere o anche solo ascoltare, la nostra critica è divenuta segno di chiusura, espressione di un’intransigenza estrema nei confronti di chi invece avremo dovuto tollerare, o imparare a conquistare.

Per noi, considerarsi unici non è inconciliabile con il lottare assieme, spinti dal motore della libertà. Non vogliamo attendere che le masse siano «coscentizzate», tantomeno vogliamo attendere di aver il permesso e dei tempi prestabiliti per criticare ed agire. Quando dovremmo associarci a qualcun’altro non potrà per noi, essere determinato dall’opportunismo, dalla solitudine o dal senso d’impotenza, ma da una reale e reciproca concordia di metodo e finalità. Altrimenti preferiremmo continuare per la nostra strada, forse più lunga e solitaria, ma che sia veramente per la nostra rivoluzione.

Non vogliamo scindere il contenuto dalle pratiche, perché riteniamo che il metodo debba essere espressione del mondo che desideriamo, un mondo senza né autorità né delega, senza concessioni

né compromessi, ma un mondo fatto di individui che possano e vogliano determinarsi. Siamo convinti di non aver bisogno di smuovere o guidare chichessia , ci sentiamo messaggeri delle nostre voci, promotori delle nostre tensioni che mal si conciliano con gli accordi, incuranti del numero e del consenso, ci piace pensare che i nostri affini, che avranno voglia di sovvertire questo esistente, li troveremo strada facendo, non cercandoli ossessivamente, ma con un movimento reciproco ci incontreremo per arrivare a toccare i nostri sogni. Vorremo poter essere in grado di infliggere dei colpi al sistema di dominazione vigente, trepidanti nello scoprire ogni suo punto nevralgico, approfittando di ogni vulnerabilità e dell’interruzione della sua normale amministrazione. Potremo si, approfittare delle scintille, potremo anche riscaldarci intorno ai falò, ma vogliamo di più e questo si avrà solo se ci preoccupiamo di farlo avvenire.

 

Due individui al-difuori.

Libri sovversivi, non beni di consumo

Quando pensiamo ai libri sovversivi, non sono i libri di ribellione giovanile che si possono trovare in qualsiasi libreria di una grande città quelli che ci vengono in mente, e neanche i libri più o meno critici usciti fuori dai nostri ambienti più vicini o dalle teste-pensanti delle università, ma piuttosto esempi come quello di Severino Di Giovanni quando fu catturato, il 29 di Gennaio del 1931, uscendo da un laboratorio di linotipie dove si era recato per le matrici di un libro di Reclus. Nonostante fosse stato per quattro anni la persona più ricercata in Argentina, per via di svariate espropriazioni, attentati e per la sua attività di agitazione, rischiò la vita per ottenere le matrici di cui aveva bisogno. Infatti, nonostante le tipografie fossero nel mirino del Potere e per questo sempre vigilate, pensò valesse però la pena di rischiare ancora una volta per un nuovo libro. Pochi mesi prima aveva raggiunto l’obbiettivo di mettere in piedi una sua tipografia dove poter stampare libri, opuscoli e periodici, usando i soldi di una recente espropriazione, anche se solo una piccola parte: la maggior parte dei soldi andò in solidarietà con i compagni imprigionati.

Pensiamo pure a Jean-Marc Rouillan, Oriol Solé e altri compagni che all’inizio degli anni ’70 rapinavano banche ed espropriavano macchine di stampa per ottenere tutto il necessario per poter fare libri a Tolosa e passarli clandestinamente a Barcellona e ad altre regioni dello Stato spagnolo.

O, magari tra i più ispiratori, l’esempio dei giovani anarchici della città di Bialystok che, durante i primi anni del XX secolo, oltre a terrorizzare i borghesi e le guardie, dedicavano una grande parte delle loro energie e mezzi alla traduzione, stampa e trasporto di materiale scritto. Nel 1905 espropriarono 330 chilogrammi di materiale tipografico per mettere in piedi Anarjiya, la prima tipografia anarchica della Russia: una tipografia clandestina per stampare pubblicazioni e libri. Per tanti anni a venire molti anarchici russi ne imiteranno il gesto, rischiando la prigione, l’esilio, la condanna ai lavori forzati o la morte.

Per molti anarchici in tutto il mondo, stampare, muovere e diffondere dei libri era tanto pericoloso quanto trasportare armi ed esplosivi: ma era come se lo fossero armi e, in più, armi molto potenti.

Questi sono gli esempi che ci vengono in mente, tra altri… come quello di quei combattenti che, scappando dalla repressione, misero in piedi una tipografia in una caverna dei monti Urali. Sono solamente alcuni degli esempi di una stretta relazione tra libri e sovversione. Esempi ispirativi non solo perché i libri —molti dei quali erano considerati pericolosi o semplicemente erano proibiti— si stampavano e diffondevano in modo clandestino, saltando tutte le proibizioni e allontanandosi da qualsiasi relazione con la logica del consumo (dalla quale oggigiorno sembra non esserci scappatoia), ma perché questi progetti di edizione, il modo nel quale si mettevano in moto queste macchine e progetti, così come la speranza e lo spirito di lotta, sembrano di un altro mondo. Ma non è del tutto così.

In molti progetti editoriali e tipografie attuali, come anche alcune riviste e giornali, ci sentiamo motivati da questo spirito che ieri abbondava e del quale questi esempi sono solo alcuni. Provando a non entrare in —però provando pure a farli saltare in aria— tutti i processi di produzione/consumo, la logica dei benefici, le relazioni commerciali e lavorativi, cerchiamo di far tornare quello spirito sovversivo, visto che un messaggio radicale deve essere contenuto in una forma di diffusione che sia all’altezza di tale messaggio.

Capiamo che ci sono progetti con finalità di sussistenza, relazionati con la edizione e la distribuzione di libri anarchici, vissuti come una forma modesta di guadagnarsi da vivere, e questo, vista la merda di lavori e le possibilità di vita dentro la cornice del sistema che ci impongono, in parte lo possiamo capire. Di contro bisognerebbe pur tenere in mente che per noi, che cerchiamo forme di vivere differenti, nelle quali la nostra vita e la nostra lotta siano totalmente relazionate con la nostra quotidianità e lontane dalle relazioni di produzione e consumo, non ci torna l’idea di lavorare in quello che per noi è uno strumento di lotta tra tanti, un’arma tra tante in questa guerra sociale.

Fra i nostri obbiettivi ci sono la diffusione —quanto più ampia e più accessibile— di idee, proposte, visioni, interpretazioni, da un punto di vista radicale. E crediamo che questo debba passare per una rottura, più radicale possibile, con le forme che il capitalismo ci impone. Per questo vediamo come qualcosa di importante il rifiuto della distribuzione commerciale che fa rincarare i prezzi, della logica di vendere i libri 10 volte più del costo di stampa, del culto delle grandi librerie, dell’uso dei codici di controllo e numerazione —per fini commerciali o di classificazione (codici di barra, ISBN, ecc.)—, dei diritti di autore (copyright o copyleft o qualunque altra cosa del genere), ecc. Vediamo come qualcosa di necessario spingere modi più diretti di distribuzione tramite delle «distro» di materiale rivoluzionario, appoggiare i progetti di tipografie anarchiche, dare per scontato che il nostro materiale sta lì per dargli vita e per essere riprodotto come meglio si desideri, e promuovere una maggiore autonomia dei nostri progetti rispetto alla traduzione, la redazione dei testi, l’impaginazione, il disegno grafico, la distribuzione e, se possibile, la stampa, oltre all’appoggio totale ad altri progetti relazionati, come le biblioteche sociali, le biblioteche per i prigionieri, ecc.

A qualcuno, magari, queste critiche e queste opinioni potrebbero risultare pretenziose, a qualcun altro scontate, ma riteniamo importante parlare anche di queste cose quando ci riferiamo ai libri e al suo potenziale sovversivo.

 

Bardo, Agosto del 2011.

Lungo linee di rottura

Qualcosa di strano è successo. Fino a solo qualche anno fa, le discussioni su un possibile rovesciamento di questa società andavano sempre di pari passo con le medesime osservazioni: «Ma, naturalmente, noi non vivremo mai tutto ciò» oppure «Se un giorno accadrà». Come se fosse necessario fare questa premessa per evitare di sprofondare immediatamente nell’inevitabile cinismo. Quel «mai» o quell’«un giorno», due facce d’uno stesso miraggio, tenevano il movimento antiautoritario sotto trasfusione. Impedivano di mettere sul tavolo certe questioni. Imponevano limiti invisibili alle nostre attività. E forse a giusto titolo. Forse non si poteva fare altro che mantenere vive certe idee e pratiche all’ombra della società, al margine dei movimenti di protesta politica. Forse la reazione (repressiva e ideologica) alle lotte degli anni 70 e 80 ci ha lasciato frastornati in questi ultimi vent’anni. La società degli anni 90 e del 2000 ci lascia poco spazio per respirare. Comunque sia, qualcosa è cambiato. Nonostante la mia giovane età, vive in me il pensiero che «le condizioni sociali» non siano più le stesse. Ma anche che pure una «prospettiva anarchica» non possa più essere la stessa e che esistano già diverse sperimentazioni che sondano nuove possibilità. Scrivo «nonostante», ma forse è proprio grazie alla mia giovane età che posso vedere ovunque dei cambiamenti. Magari tra vent’anni si vedrà che il mondo continua ancora a girare e che gli stessi meccanismi autoritari di sfruttamento e d’oppressione fanno il loro mestiere, a parte qualche piccolo adattamento e ristrutturazione qua e là. Ma almeno che questo avvenga perché il nostro entusiasmo non ha prevalso sulla società conservatrice, e non perché siamo rimasti zitti quando bisognava parlare, perché abbiamo mormorato quando occorreva urlare. Che ciò non accada perché avevamo le mani vuote, come un mendicante per strada che implora una briciola di protesta mentre il Progresso ci passava davanti. Quando invece avremmo potuto imbracciare un bastone con cui fermare, almeno per un istante, la macabra carovana.

Per mettere sulla carta la nostra rabbia e trovare le parole per esprimere i nostri desideri, facciamo spesso ricorso a scritti che risalgono a molto prima della nostra nascita. Qualche volta si dice che quei vecchi opuscoli anarchici siano superati. Ma sta proprio là la loro forza. Invece di essere l’applicazione di un modello sterile, una riproduzione mirante a provare che si ha ragione, essi si collocano sul filo di lama fra la critica totale e la presenza nelle situazioni specifiche. Tuttavia, bisogna essere in grado di capire le attuali situazioni specifiche. Sul terreno sociale vediamo che oggi, dopo l’attacco neoliberista e ideologico nei confronti dello Stato sociale degli anni 90, è iniziata la demolizione di fatto della socialdemocrazia, con la spina nel fianco della crisi economica (perversamente provocata dall’ideologia neoliberista). Scuola, sanità, cultura, trasporti pubblici, urbanistica devono ora dimostrare, più che il loro plusvalore elettorale, il loro plusvalore economico. Bisogna risparmiare in ogni ambito, a parte l’apparato repressivo che non si tocca (benché pure il settore carcerario e quello della sicurezza vengano parzialmente privatizzati). Intanto, i padroni europei Merkel, Sarkozy e Cameron vengono a raccontarci che la società multiculturale ha dichiarato bancarotta. Insomma, basta con l’integrazione dolce, con le riforme sociali e le sovvenzioni, con la distribuzione dei posti di potere fra i leader dei movimenti sociali e delle comunità. La pace sociale ci verrà imposta sempre più duramente, mentre sempre più persone verranno gettate fuori bordo. Dinanzi alla constatazione che la povertà aumenta o rimane invariata (non ci sono molte prospettive di ascesa sociale), certi gruppi non sembrano più essere i benvenuti in questa società. Non c’è che il lavoro (decentemente) remunerato a far accedere all’integrazione sociale, mentre la prigione diventa un luogo dal quale alcuni passeranno sicuramente molte volte nel corso della loro vita e gli scontri di piazza fra guardiani dell’ordine e giovani sono diventati una costante.
I sollevamenti nel Nord-Africa e la loro sotterranea corrente rivoluzionaria trovano altrettanti echi dall’altra parte del Mediterraneo. Come spesso capita, l’eco più mediatizzata è probabilmente la meno interessante. Le occupazioni di pubbliche piazze in Spagna (e in altri paesi) e gli appelli ad una «vera democrazia» sembrano essere sovente null’altro che atti disperati di un elettorato di sinistra in piena confusione da quando i partiti socialdemocratici hanno essi stessi sotterrato il progetto socialdemocratico. Benché io trovi simpatico che delle persone si prendano lo spazio ed il tempo per rimettere in questione, magari non tutto, ma tuttavia non poche cose, sarebbe ingenuo limitarsi a ciò; il pacifismo e il consenso delle assemblee generali assorbono troppo spazio e troppo tempo. C’è perfino chi osa pretendere che le sommosse nel mondo arabo fossero pacifiste e organizzate attraverso internet. Per ovvie ragioni, i media occidentali prestavano tutta la loro attenzione a piazza Tahrir, ma mi sembra che ad aver messo in ginocchio i regimi siano state soprattutto le città ed i villaggi in cui tutte le istituzioni del potere (sedi di partito, edifici governativi, commissariati) sono state attaccate e incendiate. E quelli che hanno cercato di seguire Twitter durante il sollevamento in Egitto si annoiavano a morte, esattamente come davanti alla riproduzione all’infinito dei titoli di Al-Jazeera (che trasmetteva soprattutto da piazza Tahrir).
Al di là dei limiti dei disordini in corso, ci sono alcune costanti incoraggianti. Il gran silenzio al cospetto dello Stato nel dicembre 2008 in Grecia, nel novembre 2005 nelle banlieue francesi e nel corso di altri conflitti sociali. Nessuna rivendicazione formulata, nessun rappresentante designato, nessun dialogo. Le possibilità di recupero sono così seriamente limitate. In più, la democrazia stessa mostra il proprio rifiuto di dare risposte al di fuori di una dura repressione. Anche davanti ai bravi cittadini «indignati», regnano i manganelli. È probabile che lo Stato abbia ora optato per uno scenario in cui sollecita una guerra di tutti contro tutti (o comunità contro comunità). Una tendenza già presente e in piena crescita in altri continenti. In un simile contesto, lo Stato basa la propria legittimità sul ruolo d’arbitro (che non è necessariamente sempre neutro).

Sia chiaro, non sto cercando la formula applicabile al contesto sociale che fornirà inevitabilmente la soluzione a tutti i problemi. Non penso nemmeno che il contesto specifico sia simile ovunque. Con un certo divertimento, ma anche con una dose di indignazione, abbiamo potuto constatare che l’illusione del determinismo storico è sempre viva. E che le sue parole profetiche riescono ancora a far cadere molte persone sotto il suo fascino. C’è chi aveva predetto l’insurrezione o la guerra civile come se fossero già presenti. Ci sono quelli che hanno la bocca piena di moltitudini o di democrazia di base, sia già esistenti che in divenire. Il capitalismo ci avrebbe fornito la base per la sua stessa negazione. Basterebbe liberarcene, per una sorta di formazione d’autocoscienza, un progetto politico. Capisco che marxisti di ogni risma (post-, neo-, accoliti del giovane Marx, o del Marx dell’epoca del suo opuscolo sulla Comune di Parigi, ecc.) siano rimasti abbastanza sconcertati quando è diventato chiaro che i soggetti rivoluzionari si trasformavano in gruppi-obiettivo del clientelismo e delle riforme socialdemocratiche. Alcuni hanno magari rigirato le proprie vesti per ragioni piuttosto pragmatiche (la pressione repressiva, le radici della carriera accademica, le liste vuote degli aderenti…). Ad ogni modo, una parte di loro ha gettato a mare la dialettica. Adesso lanciano l’immantenismo. Lo stesso gioco filosofico attraverso cui anche il cristianesimo ha cercato di rinnovarsi. Una volta che è stato chiaro a tutti che non c’è alcun Dio al di sopra di noi che possa punirci e ricompensarci, e che una vita senza Dio è certamente possibile, ci hanno raccontato che Dio era presente ovunque (e soprattutto nelle cose «buone») e che non bisognava considerare Dio come un essere onnipotente (e quindi giusto o ingiusto) al di sopra della terra (sebbene alcuni lo abbiano preteso per secoli).
Così, il Comunismo non sarebbe più il risultato di un avvenimento violento, politico: la Rivoluzione. Sarebbe già presente ovunque e bisognerebbe solo portarlo alla sua piena coscienza. In questa maniera l’aspetto più interessante della dialettica, ovvero la rottura, sparisce. La rottura, quel momento in cui diventa chiaro chi fa parte della forza rivoluzionaria e chi vede il proprio interesse nel mantenimento della società attuale. Nella versione marxista, ciò è ovviamente determinato dai rispettivi interessi economici e non è davvero possibile parlare di scelta (senza la quale il soggetto rivoluzionario e l’inevitabilità/determinismo apparirebbero costruiti sulla sabbia). Senza una rottura sul piano del contenuto, né la moltitudine né la guerra civile possono assicurarci di non essere delle continuazioni del progetto capitalista, di non essere semplicemente nuove forme d’apparenza dei meccanismi autoritari. Bisogna pur riconoscere che, a partire dalla loro nascita, il capitalismo e lo Stato si sono dimostrati piuttosto dotati nel compito di soffocare la resistenza rinnovandosi di volta in volta. Attraverso il recupero e la repressione (e sacrificando, se necessario, una parte di se stessi) sono riusciti ad adattarsi e a restare in vita. Ed è proprio perché non sono corpi parassitari, ma penetranti in tutti i rapporti sociali, che sono stati coronati dal successo. Ecco perché l’insurrezione (individuale) deve necessariamente andare di pari passo con una critica di ogni autorità e con la volontà di costruire altri rapporti sociali. Dobbiamo affermare questa rottura in quanti più momenti è possibile per evitare, sia in quanto individui che nella nostra lotta, di lasciarci trascinare da meccanismi autoritari.

La democrazia non è più quell’orizzonte insuperabile. Non è più una evidenza. La pace sociale è ogni giorno un po’ più chiaramente una pace imposta attraverso il ricatto del lavoro (e l’accesso al denaro per sopravvivere e “vivere”/consumare) e la repressione. Non basta più voler provocare delle crepe nel muro della pace sociale. Penso che oggi la sfida sia più grande. La pace sociale comincia a creparsi in tanti punti. Il malcontento e la rabbia montano. Ed i predicatori religiosi e nazionalisti sono pronti a reclutare. Noi dobbiamo essere pronti a evidenziare che la solidarietà, l’auto-organizzazione e l’azione diretta possono rafforzarci. Che sono idee vive che possono darci forza di fronte al nulla dell’esistenza capitalista. Dobbiamo anche essere capaci di tessere legami fra i gruppi che sono separati socialmente e/o geograficamente. Dobbiamo sviluppare una creatività d’agire per attaccare il potere sotto tutte le sue forme e soprattutto far uscire i conflitti dai loro territori tradizionali per darne una dimensione più ampia. Oggi possiamo affermare «Noi vogliamo la rivoluzione», perché questa parola non è vuota, ma al contrario è qualcosa a cui si può dare significato ogni giorno di più.

_Anon_

L’Utopia

Era da un po’ di tempo che pensavo di scrivere di certi argomenti, e da alcuni scritti che ho letto mi è parso di capire che quello di cui scriverò è un sentire presente anche in altri compagni.

È una esigenza che avverto da sempre e che non solo non si è mai sopita, ma anzi negli ultimi tempi ha occupato uno spazio sempre maggiore nelle mie riflessioni: parlo dell’Utopia. La sua idea mi perseguita con nuova e rinforzata insistenza, e ciò forse è dettato dal fatto che la sua ricerca sia andata lentamente, ma inesorabilmente, se non venuta meno, quantomeno divenuta meno ossessiva all’interno di quello che, genericamente, possiamo definire come movimento anarchico. Questa almeno è la mia impressione. Forse delusi dagli anni in cui si sono incassate solo quelle che sono state avvertite come sconfitte, stanchi delle sonore bastonate che quando si lotta è sempre possibile incassare (morali più che fisiche), con la prospettiva di non vedere mai realizzati i propri sogni più proibiti, mi sembra ci sia una certa tendenza ad accontentarsi: meglio vincere una piccola lotta che dà morale, piuttosto che incassare un’altra sconfitta nella ricerca della vittoria definitiva. Meglio riuscire ad aggiustare un po’ le cose di questo misero esistente, piuttosto che rischiare di non migliorarle mai nella tentativo di sconvolgerlo definitivamente. La ricerca continua dell’adattarsi alle situazioni che offre la nostra epoca sta soppiantando la tensione che impediva di adattarsi; la frenesia del fare comunque qualcosa per sentirsi vivi ed attivi rischia di sostituire la capacità di analisi e critica utili a sviluppare una progettualità propria. Si arriva quindi a fare ciò che tutti gli altri fanno e a parlare come tutti gli altri parlano, perché usare un linguaggio diverso rende incomprensibili e si corre il rischio di restare isolati. Si partecipa tutti quanti alle stesse lotte ma, come se non bastasse, lo si fa tutti nello stesso modo, usando gli stessi mezzi che a lungo andare conducono alla sterilità, salvo scoprire che a furia di rincorrere quello che il movimento anarchico faceva, abbiamo abortito la nostra capacità immaginativa, atrofizzato la fantasia utile per proseguire le lotte che avevamo intrapreso…

E quelle stesse lotte? Da mezzo verso qualcosa di più ampio e grandioso, rischiano di trasformarsi in fine ultimo, ed è li che si perde di vista l’Utopia. Sempre più di rado mi capita di parlare, coi compagni, dei sogni più grandi, non intesi come sogni ad occhi aperti da mettere da parte una volta finito di fantasticare, ma come sublime aspirazione a cui tendere, come qualcosa da rincorrere per tentare di realizzarla. L’Utopia per me non rappresenta un’isola nel mondo che non c’è, ma una istanza che pompa il sangue al cuore e al cervello, un’idea che non dà tregua; è la tensione che mi spinge ad agire e la consapevolezza che permette di superare la paura. L’Utopia è uno dei motivi per cui sono anarchico, perché solo questo mi offre la possibilità di lottare non tanto e non solo per un mondo nuovo, quanto per qualcosa che non si è ancora mai realizzato.

È questa la mia Utopia: il tentativo di concretizzare questo qualcosa finora mai compiuto, l’aspirazione a vivere in un mondo che non sia quello attuale e nemmeno quello di qualche migliaio di anni fa. Qualcosa che è possibile tentare solo attraverso un momento di rottura insurrezionale, un momento che significherà unicamente l’apertura di una possibilità, che possa farmi affacciare su un baratro profondo e provare la vertigine, lasciando aperta la possibilità che in fondo ci sia qualcosa di terribilmente affascinante come pure di assolutamente terribile. Un salto verso l’ignoto, insomma, senza sapere in anticipo come dovrà essere la società che desidero, ma partendo da tutto ciò che non desidero.

Pensare l’impensabile, quindi, come condizione preliminare per tentare l’impossibile.

«Chi contempla la meta fin dai primi passi, chi ha bisogno della certezza di raggiungerla prima di cominciare, non ci arriverà ma
A. Libertad

Senza precedenti

Senza precedenti. È questa la caratteristica dell’epoca che stiamo vivendo pieni di stupore, ansia, sgomento, speranza. Non che in passato la storia non abbia conosciuto guerre, insurrezioni o economie in declino. Ma, col senno del poi e a debita distanza di sicurezza, ci è sempre sembrato facile identificare le parti in causa, le loro ragioni e l’influenza delle rispettive azioni dei protagonisti sulla concatenazione degli avvenimenti. Gli ultimi due secoli ci hanno fornito una conoscenza cui attingere, hanno cesellato le nostre certezze ed i nostri dubbi, hanno impaginato la guida che utilizziamo nel nostro agire quotidiano. Ma il terzo millennio si è aperto subito all’insegna dell’imprevisto.

La mattina dell’11 settembre 2001, al risveglio, chi avrebbe detto che poche ore dopo il mondo non sarebbe più stato lo stesso? Dieci anni trascorsi da allora non hanno fatto altro che distruggere uno dopo l’altro i nostri consolidati punti di riferimento. Fino ad arrivare ad oggi, con un paese europeo da tempo in bilico fra reazione e rivoluzione (Grecia), un altro celebre per la sua flemma messo a ferro e a fuoco (Inghilterra), altri ancora a un passo dal tracollo economico (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda); regimi lontani che parevano eterni sbriciolati in poche settimane (Tunisia, Egitto, Libia), altri costretti pur di sopravvivere a una spietata repressione contro la propria popolazione (Siria); la stessa superpotenza mondiale, gli Stati Uniti padroni del pianeta, che si ritrovano a dover fare i conti con un bilancio economico fallimentare. Per non parlare delle innumerevoli guerre che avrebbero dovuto essere di breve durata e che invece perdurano (Iraq ed Afghanistan), dei conflitti che parevano sopiti e che si sono ravvivati (Israele-Palestina), delle migrazioni di massa che stravolgono (in un senso o nell’altro) il modo di vivere di milioni di persone, delle catastrofi assai poco naturali che determinano mutamenti non solo ambientali, ma anche sociali e politici. Fino ad arrivare alla vita quotidiana, quella che trasciniamo giorno dopo giorno, sempre più alle prese con la mancanza di un lavoro alienante ma necessario per procurarsi soldi che non bastano per acquistare merci che non valgono nulla… ogni cosa contribuisce a diffondere la consapevolezza che questo presente non ha futuro.

Il mondo che conosciamo, l’unico di cui abbiamo avuto esperienza diretta, si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Non ha qui importanza stabilire se il suo sfacelo sia il risultato di una pessima amministrazione del potere o anche delle lotte dei movimenti sociali, se sia una vecchia previsione che si realizza o una sorprendente novità. In un certo senso ha pure poca importanza sapere se sia reale e materiale o se si tratti dell’ennesimo inganno virtuale. Certo è che viene percepito, sentito. E questa, per chi è intenzionato a mettere a soqquadro questo mondo, non può che essere una buona notizia. Non c’è più bisogno di cercare di aprire crepe nel muro di consenso che regge l’ordine sociale: quel muro si sta già sbriciolando. Niente è più come prima. Eppure la situazione che si è venuta a creare, e che in teoria dovrebbe suscitare solo entusiasmo da parte nostra, in pratica sta provocando soprattutto smarrimento. Nati e cresciuti nello scorso secolo, nello scorso millennio, come fare per essere contemporanei e attuali? Il linguaggio, le griglie d’interpretazione cui siamo abituati, sembrano non servire più a molto e si rivelano via via inutilizzabili. Corriamo il rischio di apparire reperti storici, polverose antichità buone per i musei.

Ecco perché un confronto allargato è quanto mai necessario ed urgente. Davanti a noi si stanno aprendo occasioni inimmaginabili. Per riuscire a coglierle non dovremo imparare la lezione a memoria, ma nemmeno affidarci al puro caso, e ancor meno rincorrere qualche effimera moda ideologica. Incontrarsi, discutere, scambiarsi le proprie idee in vista di… (già, in vista di cosa?), si fa sempre più indispensabile.

 

Un mondo nuovo?

Ci viene in mente una celebre frase di Buenaventura Durruti. Non abbiamo paura delle macerie perchè un mondo nuovo sta già nascendo nei nostri cuori. Ecco, partiamo da qui. Se nel vecchio continente il crollo di questo mondo tende a provocare reazioni con sembianze nichiliste o cittadiniste, è perché non c’è più nessun mondo nuovo nel cuore degli esseri umani che lo abitano. Nel Nord-Africa i rivoltosi si battono con coraggio e determinazione, anche perchè hanno ancora una speranza che li anima. Noi sappiamo che il mito della democrazia è una menzogna e (ci) ripetiamo che in bocca loro è solo un pretesto per scatenarsi. Ma, pretesto o ragione che sia, è inutile nascondersi che hanno bisogno di quel mito, hanno bisogno di un sogno che li inciti a distruggere ciò che ne ostacola la realizzazione. Tutte le rivoluzioni hanno avuto bisogno di un sogno talmente potente ed inebriante da eccitare gli esseri umani e spingerli all’azione. E questo sogno è sempre stato altro rispetto alle miserabili concessioni dell’esistente. La democrazia diretta invocata dagli Arrabbiati era inimmaginabile prima del 1789, così come lo era la Comune prima del 1871, o il Soviet prima del 1917, o la Collettività prima del 1936…

Ma oggi, qui in occidente, qual è il sogno? L’unica utopia rimasta incontaminata (in un certo senso, terribile a dirsi, anche grazie alla sconfitta della rivoluzione spagnola) è quella dell’anarchia, di un mondo privo di qualsiasi rapporto di potere. Nonostante ciò, fra gli stessi anarchici si nota una certa reticenza a sostenerlo, l’imbarazzo di chi non vuole apparire poco pratico, troppo irrealista. E poi, a chi rivolgersi? Sotto l’irresistibile spinta dello sviluppo tecnologico, gli ultimi decenni hanno visto l’erosione di ogni significato, lo stravolgimento delle parole, il generalizzarsi dell’afasia. La Babilonia del libero mercato è anche la Babele dell’incomunicabilità.

Ciò ha provocato la scomparsa non della cosiddetta questione sociale, piuttosto della sua consapevolezza. Le lotte sociali odierne non sono condotte da sfruttati che vogliono farla finita con lo sfruttamento (e che purtroppo si fidano ancora di politicanti pronti a tradirli), ma da cittadini integrati che pretendono solo una democrazia più autentica. Mentre le rivolte che scoppiano improvvise nel nostro angolo di pianeta di solito non hanno contenuto, non formulano rivendicazioni, non indicano prospettive, sono solo esplosioni di furore. Questa tendenza, ben visibile in Europa, ha spinto la maggior parte del movimento anarchico a dividersi, ad imboccare due strade apparentemente contrapposte ma in realtà speculari.

Sopita ogni speranza nel proprio cuore, agli occhi di molti compagni che non intendono rassegnarsi si è delineata un’alternativa secca, brutale, inevitabile. O rinunciare ad ogni tentativo di coinvolgimento di masse che mostrano di essere diventate sempre più alienate, e trasformare la guerra sociale in una guerra privata fra gli anarchici e lo Stato (lottarmatismo). Oppure inseguire questo coinvolgimento fino al punto di adeguarsi alle “dinamiche” delle masse riprendendone le rivendicazioni, trasformando la guerra sociale in una contestazione della società civile contro lo Stato (cittadinismo). Non possiamo fare a meno di osservare come il punto di partenza di questi percorsi sia il medesimo: la constatazione che la realtà circostante non permette più un intervento rivoluzionario simile a quello praticato o anche solo auspicato nel secolo scorso.

Sia chiaro, entrambe queste ipotesi forniscono risposte ad esigenze reali, concrete, mai messe in discussione. Solo che il tentativo di incidere sulla realtà circostante è andato separandosi nelle forme, così che i diversi modi di lotta non sono più complementari, ma si sono polarizzati in due alternative ugualmente politiche: da una parte la partecipazione intenzionalmente acritica alle “lotte popolari”, dall’altra la costituzione di un’organizzazione specifica che rivendichi i vari attacchi contro il potere. Ora, è proprio l’irruzione della politica e dei suoi calcoli in un movimento che le era ostile ad essere una delle cause principali della odierna “depressione” che affligge molti compagni. E più la politica si rivela “vincente”, grazie a un utilizzo senza scrupoli dei vari espedienti autopromozionali, più non si riesce a farne a meno.

 

Quale strada?

L’anarco-cittadinismo è riuscito a far benvolere i compagni in alcuni contesti di massa, a far loro ottenere visibilità e consenso, però… a quali condizioni? A patto di rinunciare ad essere anarchici, di imparare a travestire o a tacere il proprio pensiero, di sopportare l’insopportabile. Si tratta di una “vittoria” che non riesce a nascondere lo squallido opportunismo che l’ha resa possibile, e che è riuscita in un’impresa un tempo impensabile: far detestare da tanti compagni la stessa ipotesi di intervenire in una lotta sociale, intervento che viene ormai considerato sinonimo di compromesso. Come stupirsi, dopo aver visto anarchici organizzare conferenze con riformisti e presentare raccolte di firme alle autorità? Come meravigliarsi, dopo averli sentiti auspicare una maggiore circolazione di merci e rimproverare i partiti sedicenti pacifisti di non fare il proprio dovere istituzionale? Come lamentarsi, dopo averli visti andare a braccetto con stalinisti e preti? Non solo, ma questa interpretazione prettamente politica della lotta sociale viene spacciata come una verità acquisita attraverso un’indiscutibile esperienza storica. «Condivisione o Stato» — è il patetico diktat che oggi chi è a corto di argomenti cerca di imporre per non affrontare i problemi.

Eppure, dinanzi all’estendersi della rabbia, allo scoppiare di sempre maggiori proteste, allo schiudersi di nuove prospettive, è assurdo privarsi della possibilità di intervenire in contesti più allargati solo perché si è assordati dal chiassoso marketing di alcuni piccoli leader di movimento. Per cui, anziché inorridire di fronte all’inevitabile parzialità delle lotte sociali, dovremmo tentare di batterci anche al loro interno, sapendo e chiarendo che la natura sociale di una lotta è data dalla sua dimensione qualitativa, non certo da quella quantitativa. Pochi compagni che sabotano i cantieri del Tav, ad esempio, stanno conducendo a modo loro una lotta sociale, giacché l’Alta Velocità è un problema che riguarda tutti, indistintamente. Tanti compagni che manifestano per l’abolizione dell’ergastolo, per fare un altro esempio, portano avanti a modo altrui una lotta politica, giacché la detenzione a vita è un problema che riguarda pochissimi e che può trovare una soluzione abolizionista solo sul piano legislativo.

Perciò, noi non vogliamo affatto stare alla larga dalle lotte sociali. Intendiamo stare alla larga dai politici che le infestano, anarchici compresi.

L’anarco-lottarmatismo, da parte sua, anche dove più spesso e con migliori risultati è riuscito a colpire direttamente il nemico (come in Grecia o in America latina), tende però a ridurre la sovversione sociale a un fatto puramente militare, ad uno scontro fra noi e loro. Basta osservare quante azioni vengono realizzate esplicitamente in risposta alle operazioni repressive. Anziché proseguire e allargare la lotta contro il dominio in tutti i suoi aspetti, la solidarietà così intesa si riduce a una difesa del proprio piccolo orto: gli anarchici attaccano lo Stato che ha arrestato dei compagni, lo Stato a sua volta reagisce arrestando altri anarchici, i quali a loro volta reagiscono attaccando lo Stato, il quale a sua volta reagisce arrestando altri anarchici, i quali a loro volta… E si crea un vero e proprio circolo vizioso che diventa ancor meno allettante con l’infarcitura di quella triste retorica che esalta il martirio e il sacrificio. Non è più una lotta che mira a sovvertire un esistente intollerabile per la stragrande maggioranza delle persone, è un duello fra alcuni individui ribelli e lo Stato. Il fatto che talvolta questo scontro finisca sulla prima pagina dei giornali non lo rende per questo più interessante, viene comunque percepito come una questione privata e come tale può attrarre solo un pubblico di spettatori. Anche perché, e questo è l’aspetto peggiore, il lottarmatismo fa sì che l’attacco alle strutture e ai responsabili del dominio diventi la caratteristica di organizzazioni specifiche anziché di un intero movimento. E questa non è affatto una necessità naturale. È una scelta arbitraria. Come dimostra gran parte della storia del movimento anarchico, la “propaganda col fatto” può ben essere opera del movimento nel suo insieme. E ciò avviene quando l’azione rimane anonima, senza nessuno che ne rivendichi la paternità. Quando un’azione non appartiene a qualcuno in particolare, allora può appartenere a tutti in generale. Ma se ci si prende la briga di rivendicarla, di apporvi sopra il proprio marchio, è perché si vuole sottolineare davanti al mondo che quella azione appartiene a qualcuno.

Malgrado le apparenze, cittadinismo e lottarmatismo si assomigliano e si alimentano a vicenda. L’apertura al compromesso del primo stimola la chiusura identitaria del secondo, e viceversa. Il cittadinista che giura sulla propria radicalità mentre stringe la mano al politico non si differenzia molto dal lottarmatista che giura sulla propria informalità mentre costituisce un’organizzazione dotata di sigla e programma. Il primo cerca il consenso delle masse, e per questo non disdegna i microfoni dei giornalisti. Il secondo disprezza le masse, ma cerca i riflettori dei media. Entrambi, a modo loro, inseguono la visibilità.

Noi consideriamo immensamente più desiderabile un movimento anonimo ed informale — un movimento anarchico autonomo, come si diceva un tempo, prima che questa definizione venisse storpiata da magistrati e giornalisti — che non rinuncia alla sua alterità nei confronti del mondo che lo circonda. Ma che non rinunci nemmeno alla possibilità di sovvertirlo, ovvero che non accetti di lasciar spegnere nel proprio cuore quel mondo nuovo che non fa temere le macerie. L’utopia è il solo antidoto contro il cittadinismo e contro il nichilismo. Viviamo come ospiti, indesiderati e indesiderabili, nel vecchio mondo decrepito. La sua agonia non ci commuove, anzi, siamo ben intenzionati ad accelerarne la scomparsa.

 

Prospettive

Quante volte bisogna vedere i propri sogni infranti prima di smettere di sognare? Quante volte bisogna sentire tradita la propria fiducia prima di iniziare a diffidare di tutti? Quante volte bisogna veder rinnegate le proprie idee prima di accontentarsi di mutevoli opinioni? Quante volte bisogna sentire banalizzato il proprio pensiero prima di rinunciare ad ogni comunicazione? C’è chi continua a chiederselo, sperando in cuor suo di non riuscire mai a trovare una risposta. Anche noi. Testardi o solo stupidi, intempestivi o solo in ritardo, troviamo intollerabile sprofondare nella mestizia proprio nell’attimo in cui si aprono nuove ed affascinanti possibilità.

Ma — occorre prenderne atto — non è la propaganda sovversiva, non è la costituzione di un’organizzazione rivoluzionaria a far scendere nelle strade i rivoltosi. È la miseria, materiale ed emozionale, di questa esistenza che tutti trasciniamo quotidianamente. Se ciò era già vero in passato, lo è ancor più oggi, quando dietro alla collina non s’intravede nessun sol dell’avvenire ma piuttosto la notte del caos primordiale. Dinanzi a questa oscurità i militanti continueranno a recludersi nel proprio chiostro per paura di venir confusi con la triviale canaglia, mentre gli intellettuali continueranno a interrogarsi sulla crisi della rappresentanza. Ma non c’è nulla da condannare o da esaltare nelle rivolte moderne, quelle che mandano in tilt le nostre abituali bussole di orientamento. C’è tutto da affrontare.

Per decenni siamo rimasti pressoché immobili nelle acque stagnanti della pacificazione sociale, in attesa del vento in grado di farci muovere verso le nostre rispettive destinazioni. Le nostre speranze e previsioni sono andate deluse, non è una semplice corrente d’aria quella che si sta sollevando. All’orizzonte si profila un cielo nero che promette solo burrasca. Ed ora, cosa vogliamo fare? Abbassiamo le vele e buttiamo giù l’ancora, determinati a rimanere fermi perchè il rischio di incorrere in un naufragio è troppo elevato, oppure rinforziamo il più possibile la nostra imbarcazione e molliamo gli ormeggi?

Che le sommosse che scoppiano improvvise siano limitate nel tempo e nella sostanza, è un falso problema. Se lo sono, ciò è dovuto anche all’assenza di chi potrebbe contribuire a prolungarle e sublimarle. Anche se fossero soltanto la scarica di febbre di un corpo sociale malato, resta il fatto che esse comportano un abbassamento delle difese immunitarie in grado di facilitare l’insorgere dell’infezione fatale da noi auspicata. Anche se fossero la breve ricreazione concessa prima del compito in classe, resta il fatto che sta a noi riuscire a sabotare l’ingranaggio della campanella. E se chi vi prende parte non nutre affatto aspirazioni rivoluzionarie, mosso più dal rancore per la propria esclusione sociale che dal rifiuto di ogni integrazione istituzionale, anche questo ha ben poca importanza. A rendere comunque desiderabili questi sommovimenti è la sospensione della normalità che riescono ad imporre, premessa indispensabile per ogni tentativo di trasformazione della realtà. Non si tratta di condividere i gusti di chi si scontra con le forze dell’ordine, né di cercare di pedagogizzarlo inseguendolo con i sacri testi sovversivi in mano mentre va all’assalto di merci insulse. Si tratta di gettarsi nel caos che si viene a creare — anche se per banali motivi, anche se in maniera pilotata — e tentare di scombussolare, ostacolare, ritardare, impedire ogni ritorno all’ordine dei bisogni. Il che equivale a strappare tempo prezioso per sperimentare, diffondere e consolidare il disordine dei desideri.

Ecco perché, alla luce dei nuovi focolai che ardono e con il clima che si respira in tutta Europa, diventa per noi sempre più importante non farsi trovare impreparati. Non pianificando il nostro agire per corazzarsi contro l’ignoto, né ricercando nuove complicità dove non possono esserci, finendo col diventare gli inconsapevoli assistenti sociali del nostro destino. Senza garanzie, senza certezze, senza timore di ciò che è indecifrabile. Ma, nell’eventualità non più tanto remota che anche sotto casa nostra scoppi un incendio, è bene avere già un’idea più o meno chiara di dove andare e cosa fare, mentre approfondiamo come farlo e perché.

 

«Non c’è una sola organizzazione che sia al di sopra della mia libertà individuale…

e comunque non voglio far parte di una rivoluzione in cui non si possa ballare»

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(update 04.10.2011)

La vecchia storia dell’internazionalismo

Un rapido sguardo all’epoca della prima Internazionale e delle fratellanze rivoluzionarie che allora sapevano stimolare e far vivere, al di là delle frontiere, la persistenza di una tensione insurrezionale, la dice lunga sulla situazione paradossale che viviamo oggi. Mai nella storia dell’uomo ci sono state tante possibilità di trasporto, di viaggio e di comunicazione; mai la situazione di tanti paesi è stata così simile; eppure sembra quasi che noi anarchici e rivoluzionari non siamo mai stati tanto attaccati alle frontiere statali. Paradossalmente, la globalizzazione del dominio sembra andare di pari passo con una de-internazionalizzazione dei suoi nemici dichiarati.

Non è come se ogni traccia della vecchia storia dell’internazionalismo sia stata cancellata ma, siamo onesti, la situazione è miserabile. Al di là di qualche moto solidale e, nel migliore dei casi, di una certa condivisione di esperienze e di progettualità, non si va oltre. Basta guardare la mancanza semplicemente vergognosa di prospettive rispetto alle sommosse dall’altra parte del Mediterraneo (o anche solo alla rivolta del dicembre 2008 in Grecia) per rendersene conto.

Il fatto che il potere abbia trasformato la comunicazione in merce, in strumento di abbrutimento e di alienazione, ha eroso anche il sogno dell’internazionalismo rivoluzionario. Oggi sembra quasi che il solo internazionalismo in ambito anarchico esista nella rete globale di diffusione della passività, con i suoi flussi infiniti di informazioni incomprensibili (perché staccate da qualsiasi contesto e dalla vita), inafferrabili (perché destinate al semplice consumo davanti allo schermo) e volatili (perché immerse in un autentico bombardamento di dati). Anche tutta l’esperienza del tempo e dello spazio è profondamente mutata. Ciò che oggi è ancora una novità, domani è già dimenticata. E tanto più il laggiù arriva sempre più rapidamente verso il qui attraverso i canali di informazione, tanto meno il qui sembra poter dialogare con il laggiù. Indubbiamente qualsiasi prospettiva internazionalista rinnovata deve saper sviluppare anche una nuova esperienza e concezione del tempo e dello spazio. Altrimenti, è condannata a crepare nel quadro temporale e spaziale del dominio. Si potrebbe fare lo stesso paragone con la vecchia Internazionale: in quell’epoca, in piena crescita degli Stati-nazioni, la creazione di uno spazio internazionale costituiva già una rottura col dominio.

In quali modi l’internazionalismo, la solidarietà rivoluzionaria internazionale, potrebbe tornare ad essere una forza e lasciare dietro di sé la sua attuale mutilazione tecnologica e attivista? A parte il caso in cui si ritenga che più il dominio si stabilisce come universale e più i suoi avversari devono radicarsi in microcosmi locali, questo è un interrogativo che deve essere messo sul tavolo.

Ricordiamo ancora che in un passato non molto lontano ci sono stati anarchici che hanno tentato di creare una sorta di nuova Internazionale, tentativo non riuscito. Secondo noi la rivalutazione dell’internazionalismo non dovrebbe iniziare con la formazione di un’organizzazione formale (poco importa che essa si dichiari comunque informale), ma attraverso la moltiplicazione cosciente di occasioni, sia di discussione e di confronto che di lotta. Non è difficile rendersi conto quanto possa essere importante e stimolante scambiarsi esperienze di lotta. Inoltre, se è vero che l’instabilità sociale continuerà ad aumentare negli anni a venire, e se è vero che il periodo di pace trentennale nel continente europeo starebbe per concludersi, non c’è il minimo dubbio che lo sviluppo di ipotesi torna a farsi pressante. Se rileggiamo i testi e le lettere che circolavano fra le fratellanze antiautoritarie – per la maggior parte informali – all’epoca dell’Internazionale, si potrebbe quasi parlare di una vera ossessione di ipotesi, di continui tentativi teorici e pratici nel panorama sociale per trovare occasioni atte a dar fuoco alle polveri e a preparare l’insurrezione. Oggi, non solo il loro slancio rivoluzionario e il loro indomabile entusiasmo ci parlano ancora, ma anche il loro coraggio di osare sbagliare, di perdere, di incassare una sconfitta (o piuttosto una serie di sconfitte). Chi oggi non è disponibile a rompersi la testa contro il muro, conseguenza sempre possibile della volontà di portare l’utopia all’interno dello scontro, farebbe meglio a dedicarsi unicamente alla mera contemplazione degli avvenimenti. Perché la complessità dei conflitti a venire; la tensione, come alcuni l’hanno descritta, fra la guerra sociale e la guerra civile; la perdita del linguaggio per comunicare idee e sogni; la mutilazione profonda e innegabile degli individui — non sono semplici previsioni, sono ormai dei fatti. Spetta a noi ritrovare il coraggio di sognare, di osare tentare di realizzare i propri sogni nell’elaborazione di ipotesi rivoluzionarie e insurrezionali, a partire da una situazione in procinto di esplodere, o da una lotta specifica condotta nel senso dell’attacco, o da un coraggioso tentativo di insorgere davanti all’avanzata del massacro e della guerra civile…

Forse un esempio potrebbe chiarire un po’ le cose. I moti dall’altra parte del Mediterraneo hanno, temporaneamente, aperto le porte dell’Europa. Decine di migliaia di persone hanno violato clandestinamente le frontiere e molte fra loro avevano ancora in bocca il dolce sapore della rivolta. Di fronte a una simile situazione, del tutto nuova e imprevista come lo erano quei sollevamenti, non basta tirar fuori dall’armadio le nostre ricette comprovate di lotta contro i Cie e contro le frontiere. Armati delle esperienze di lotta che già abbiamo, avremmo potuto realmente e concretamente riflettere su come, insieme o in contatto con quelle decine di migliaia di persone, portare la rivolta anche sul suolo europeo. Lo stesso dicasi per il periodo dei moti in Tunisia, in Egitto,…; quali iniziative intraprendere per accendere anche qui la fiaccola dell’insurrezione; come, da un’ottica forse più modesta, difendere e sostenere le rivolte di laggiù? Perché, ad esempio, al di là del simbolico non abbiamo realmente e definitivamente occupato le ambasciate di quei paesi, cacciando gli ambasciatori che reclutavano, com’era il caso in particolare della Libia, i mercenari per andare a massacrare gli insorti? Suppongo che in questo senso diventi immediatamente più chiaro che un approccio internazionalista delle ipotesi sia indispensabile.

Poniamo la questione anche in un altro modo. Quante volte nelle lotte specifiche ci siamo scontrati con situazioni in cui mancavano semplicemente abbastanza compagni (sia in termini di quantità che di qualità) per tentare ciò che sembrava possibile? Perché, non inganniamoci, all’epoca dell’ondata di insurrezioni in Europa, non c’erano solo compagni che vivevano là! Quante volte l’inasprimento della repressione in un periodo intenso (aumento della sorveglianza dei compagni coinvolti, pressioni di ogni genere, limitazione degli spazi di movimento e anche perdita di tempo, dovendo aver a che fare coi cani da guardia dello Stato) avrebbe potuto essere un po’ allentato dall’arrivo e dalla permanenza temporanea di qualche altro compagno? Credo che occorra affrontare queste questioni senza apriori e senza timore, e cercare possibili risposte. Non è impensabile sperimentare forme di coordinamento internazionale, senza dover ricorrere a dichiarazioni formali, a congressi ufficiali o, cosa che potrebbe essere in qualche misura l’altra faccia della medaglia, ad una oscurità totale che contribuirebbe solo ad alimentare i fantasmi dell’internazionale degli inquisitori di ogni paese. Forse si potrebbe anche pensare, ad esempio con un periodico bollettino di corrispondenze, come potrebbero iniziare a nascere una temporalità ed uno spazio propri, indipendentemente dai canali di informazioni che puzzano della logica del potere.

Non c’è dubbio che si possano dire molte altre cose su questo argomento. So che questo testo è solo un sasso nell’acqua stagnante, ma parto dalla speranza che possa contribuire ad una discussione che osi aprire qualche possibilità.

 

Un viaggiatore

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