Oct 3, 2011
Schiarite
Distruggere ringiovanisce.
Walter Benjamin
L’unico capitale che il proletariato […] abbia come tale accumulato nella storia, è la spinta latente della sua collera, globalmente negatrice dello “stato delle cose”, la sua latente possibilità concreta di rovesciare con la violenza lo stato delle cose e affondarlo una volta per sempre nel passato storico, con tutta la sua cultura, tutta la sua verbalizzazione razionalizzante, la spettacolare organizzazione delle apparenze.
Giorgio Cesarano, Gianni Collu
Mi allontano da quelli che aspettano dal caso, dal sogno, da una sommossa la possibilità di fuggire l’insufficienza. Assomigliano troppo a coloro che in altri tempi si sono affidati a Dio allo scopo di salvare la loro esistenza mancata.
Georges Bataille
Trent’anni di controrivoluzione sono finiti.
Quell’assalto al cielo che ha animato le esperienze più radicali degli anni Settanta torna a spaventare, con la sua carica di incompiuto, i sonni dei tecnocrati, dei benpensanti, dei cittadini fieri di esserlo. Questa società, che sopravvive al proprio crollo solo come gigantesca infrastruttura, come dispositivo poliziesco, come teatro d’ombre, pensava che a tener lontani i poveri dalla loro potenza e dai loro simili bastasse un mare di distanza, un mare di telecamere e di uniformi. Pensava che lo sviluppo diseguale, il ricatto del debito internazionale, le camorrie tecnomilitari, i massacri regionali fossero un programma applicabile ancora a lungo. Ammazzare quanta più umanità in esubero possibile, vendere armi, controllare i movimenti di opposizione sono pratiche che hanno reso bene, soprattutto quando l’ideologia della liberazione nazionale si prestava al gioco. Ma quel tipo di guerra tra Stati e contro-Stati non sembra bastare più.
La mobilitazione totale imposta dal dominio planetario ha dato il via, come suo contraccolpo, ad un gioco ben più pericoloso: quello delle corrispondenze.
La sommossa di Londra e poi delle altre città inglesi è stata la miglior risposta alle insurrezione nel Nord Africa. Un gesto di corrispondenza che riprende ciò che è accaduto nelle banlieues francesi nel 2005 e in Grecia nel 2008. Un gesto che rinvia alla sommossa di Tirana della primavera scorsa, che ritorna in un Cairo tutt’altro che pacificato, che si allarga a Santiago del Cile. Un giovane assassinato dalla polizia non è, purtroppo, una novità. Ciò che è nuovo, invece, è la collera che incontra. La stessa degli shebab dei territori palestinesi. Non è la vecchia solidarietà internazionalista, non è il progetto di portare la guerriglia antimperialista nelle metropoli occidentali, nel ventre della bestia. È qualcosa di diverso. È un modo di rispondere alla stessa guerra, alla stessa vita incapsulata e oscura, alla stessa mancanza di senso.
Come appaiono patetici i tentativi delle agenzie di stampa e degli analisti salariati di prestare lodevoli intenzioni democratiche alla “primavera araba” e di bollare come esplosione di un malessere assurdo e incomprensibile la rivolta di Tottenham, Enfield, Brixton, Hackney, Peckham.
Cosa vogliono questi giovani dei quartieri proletari, sia autoctoni che immigrati? Non ce l’hanno forse già la democrazia? Sì, ce l’hanno. Ma la democrazia reale, benché abbia sfruttato la loro forza e segnato col ferro i loro corpi, non ha ancora distrutto la loro volontà di riscossa, non ha ancora spento definitivamente le loro anime ardenti.
A partire in fiamme non sono solo commissariati e banche, ma anche il gigantesco deposito della Sony di Enfield. 22 mila metri quadri di cemento. Sembrava in grado di tener ancora a bada la gioventù per molto tempo, isolata e con le cuffie alle orecchie. Invece, assieme alla polizia, i colpi mirano anche l’industria del divertimento di massa. Alienazione consumistica e manganello: le due morse che schiacciano ogni vita, ogni gioventù. “I grandi palazzi e le ampie strade, il cemento e l’acciaio avevano perso la loro parvenza di durevole solidità. Anch’essi erano fragili e potevano essere distrutti. Una torcia, una bomba, una folata di vento abbastanza forte, e anch’essi sarebbero crollati”, scriveva anni fa un ex Weathermen ricordando le rivolte statunitensi degli anni Sessanta.
Migliaia e migliaia di telecamere, 16 mila poliziotti, la minaccia di usare l’esercito non sono bastati. E nemmeno la frontiera interna. Dopo giorni di sommossa nei quartieri poveri, la rivolta ha sfondato le porte di lusso di Brent, Ealing, Camden, Nothing Hill, Oxford Circus. Le zone di Wembley (addio alla partita Inghilterra-Olanda!), dei centri commerciali, della moda, della neo-vita radical-chic. La classe pericolosa arriva fin sotto le case dove vive imprigionata la minoranza tecnoburocratica degli inclusi, e ne libera l’ingrata gioventù, ormai anoressica di merci e spettri.
Questi non sono degli indignati, versione saltellante dell’impotenza cittadinista, sono degli arrabbiati, dei collerici. Come disse quel tale, “c’è della plebe in ogni classe”, visto che ad essere colonizzata non è più solo una parte del pianeta o ciò che resta della società, bensì la nostra intera vita, messa al lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro.
Questi partigiani della vita offesa e diminuita si uniscono nelle viscere – nella propria corporeità insurrezionale – ai rivoltosi d’ovunque. La crisi economica, la scuola pubblica a pezzi, i genitori schiacciati e soli – balbetta la sociologia di sinistra, alla ricerca di un riformismo fuori tempo massimo. Già sentite, quelle spiegazioni. Brusìo, nulla più.
L’insurrezione, il possibile nella e contro la storia, è di nuovo fra noi.
Già negli anni Settanta qualche allevatore di assassini in cravatta e in uniforme sosteneva che la nuova guerra deve giocarsi su tre movimenti. Primo, la repressione senza indugi di ogni gesto d’insubordinazione, il quale, in un ordine sociale implacabile quanto fragile, può portare dritto all’insurrezione. Secondo, l’assunzione strategica della fine di ogni distinzione tra civile e militare per assuefare la popolazione alla presenza crescente di soldati. Terzo, la creazione di movimenti per la pace che rifiutino la violenza, di modo da isolare e colpire chiunque fuoriesca dalla democrazia-mondo.
Si può dire che ci siamo. Mangiare per strada, sedersi sulle panchine, radunarsi nei cortili delle case è vietato in sempre più città. Non solo per far trionfare lo spazio della merce e della speculazione a dispetto dell’ingombranza umana, ma perché l’ordine della separazione e dell’isolamento teme la natura sovversiva di ogni condivisione. Chi condivide qualcosa è ormai un nemico dello Stato.
L’indistinzione civile-militare è un fatto compiuto, nella produzione, nella ricerca, nel controllo, nella progettazione di case, palazzi, quartieri. Tutti gli esperimenti coloniali (urbanistici, polizieschi, antropologici, strategici) hanno come nuovo e più ampio laboratorio le nostre città.
Provare a creare o infiltrare i movimenti di opposizione contro regimi un tempo alleati e ormai decrepiti è da sempre una tecnica collaudata. Se i ribelli siriani possono tranquillamente venir massacrati, a quelli libici si può prestare qualche bombardamento della Nato per rilanciare la posta nel poker geopolitico delle spartizioni. Qualche Consiglio Nazionale Provvisorio, costruito d’accatto per i media, lo si trova in fretta. Ma non è detto che le popolazioni insorte – stante il vento che tira ovunque – stiano nei ranghi. Anche sul piano interno, meglio una chiara e democratica indignazione oggi, che un’opaca e ingovernabile insurrezione domani. Ma quando l’indignazione arriva persino in Israele, dopo cinquant’anni di storia, non è detto che l’occupazione dei territori palestinesi continui a rimanere un altro discorso.
Alla guerra militare sta subentrando sempre più la guerra civile, che comporta almeno tre condizioni favorevoli per i rivoluzionari (favorevoli, sia chiaro, non deterministicamente garantite). La contestazione sul campo del monopolio statale della violenza. Il passaggio carsico di sovranità dallo Stato all’individuo. L’allentamento del controllo, cioè il rimescolarsi delle amicizie e delle inimicizie, delle affinità e delle incompatibilità su un piano di immanenza.
L’invito implicito è quello di disfarsi di ogni ideologia insurrezionalista – con i suoi feticci, la sua retorica, le sue analisi sempreuguali – per affrontare teoricamente e praticamente, eticamente e materialmente l’insurrezione come possibilità storica.
Siamo forse usciti da quel lungo deserto che faceva della rivolta una testimonianza di resistenza umana, un metodo da non mettere in soffitta, un’arma per attraversare le lande gelate dei rinnegati, dei rifluiti, dei dissociati, dei rassegnati. Tutto quell’apprendimento riottoso non deve cedere il passo ora di fronte agli assalti che individualmente ci chiamano.
Se penso che nei primi anni Novanta qualche compagno propose un’Internazionale Insurrezionalista Antiautoritaria che avesse come terreno d’intervento l’area del Mediterraneo per le enormi possibilità insurrezionali che offriva, rimango stupito da quanto la realtà si sia incaricata di confermare la giustezza di quell’ipotesi, all’epoca accantonata a causa di incomprensioni, malumori, bizze e manovre repressive.
Se penso che di anni e anni di discussioni su gruppi d’affinità e organizzazione informale è rimasto a malapena un modo di rapportarsi tra compagni, disattendendo quasi del tutto l’altro piano: quello delle strutture di base composte sia da compagni sia da altri sfruttati…
Se penso che per organizzazione informale s’intendeva l’esatto contrario delle sigle e delle federazioni, ma anche dell’isolamento rancoroso e autocompiaciuto…
Ma come Bakunin parlava del “movimento anarchico delle popolazioni” (in francese anarchique e non anarchiste), così oggi è possibile avere come orizzonte concreto un movimento insurrezionale, non semplicemente un milieu insurrezionalista.
Tanto più che nelle situazioni di guerra civile non è certo con i simboli o con le chiacchiere che si va da qualche parte.
La guerra civile appare là dove la finzione della società, del patto, dello scambio, dell’assicurazione reciproca crolla ed emergono, fuori e dentro gli individui, le potenze, le inclinazioni, le condizioni di vita, le idee e i loro mondi, i mezzi approntati, i diversi clinamen. Messe tra parentesi le normali regole di condotta, la muta coazione economica, le liturgie politiche, il gioco è di nuovo aperto. Non più ripiegata su di sé, la vita mostra le proprie scanalature, gli spigoli, i nodi, le fenditure. Il primo gesto, tentazione a lungo trattenuta, è quello di distruggere. Si distrugge ciò che si conosce, ciò che si espone al tatto. Lo spazio smette di essere qualcosa di illimitato e insieme compresso – come la “società” -, per farsi luogo, territorio. Fuoriuscito dal mondo virtuale delle protesi tecnologiche, l’individuo collerico fa mente locale. L’umiliazione incorporata nei viali inabitabili, nei centri commerciali, nei commissariati, nei vagoni della metropolitana, negli uffici di collocamento, nei call center viene colpita a sassate, demolita, incendiata. L’essere vivente riprende il sopravvento sul mondo reificato, sullo Stato delle Cose. Il sentimento di vuota intercambiabilità che segna la sopravvivenza capitalizzata spinge molti rivoltosi alla più paradossale delle passioni: la pulsione alla propria (e altrui) sacrificabilità. Forse proprio lì, in quel paradosso, si gioca lo scontro tra la liberazione e la barbarie, tra la condivisione delle differenza e l’identificazione con una nuova autorità. Tutte le spiegazioni economicistiche o antropologiche del nazionalismo, dell’integralismo, del potere lasciano questo vuoto – il salto tra la meschinità dell’interesse e l’ignoto (e la morte). La guerra civile – che non è solo crollo giuridico, economico, politico, ideologico e valoriale – allarga proprio quel vuoto, coperto a fatica da ciò che chiamiamo cultura. Vendetta, risentimento, disillusione, malanimo… Non ci piace quello che ne esce? Cosa pensavamo, che fosse tutto miele? No, è feccia, il solo terreno fertile per la libertà.
Qualcuno ha detto che la rivoluzione non è un problema di organizzazione, bensì ha un problema di organizzazione. Ben detto.
Avere delle ipotesi. Circoscritte, ma tenaci. Affinare ciò che di unico, di appassionante e di comune abbiamo da opporre e da sottrarre al dominio e al suo mondo.
La nostra linea del fronte è piena e vuota allo stesso tempo, è là dove attacchiamo e viviamo, per attaccare più in là, e più in là ancora vivere. Il dominio non è un’escrescenza esterna al “sociale”, ai nostri rapporti, a noi stessi; è l’infrastruttura dell’alienazione, l’universo materiale dell’isolamento, la miseria incorporata negli oggetti, nel lavoro morto, nello spazio urbano, l’impotenza incastonata nel linguaggio, la frustrazione che presidia ogni immagine del possibile, l’ordine dell’identico. Non c’è sommossa che ci faccia, in un sol colpo, altri da ciò che siamo. La rivolta è solo l’inizio.
Fine delle grandi compagini organizzative. La ristrutturazione informatica della produzione e la trasformazione urbanistica (cioè l’assassinio delle città storiche) hanno polverizzato ogni spazio di autorganizzazione duratura degli sfruttati. Ma in passato quelle intelaiature organizzative si sono rivelate sempre, nello stesso tempo, gli strumenti del recupero politico-sindacale e le basi del nuovo potere. Oggi non esiste forza esterna al dominio in grado di irreggimentare una rabbia immediatamente antisociale. Non è un dato storico da poco, come sanno tutti i consiglieri del Potere. L’organizzazione per affinità è la modalità più adeguata alla guerra civile, quella che emerge spontaneamente nelle bande di quartiere. Un collegamento orizzontale delle rivolte si sta dando anch’esso in modo piuttosto spontaneo, come abbiamo visto in Egitto, in Tunisia, in Libia, in Inghilterra. Che questo collegamento orizzontale diventi anche la prospettiva di un mondo diverso, e non solo un’esigenza pratica immediata, è altra faccenda. Ma più che dalle macchinazioni esterne, un movimento insurrezionale deve guardarsi oggi dalla debolezza interna. Il dominio attuale è fragile perché strutturalmente interdipendente (pensiamo alle informazioni, all’energia, alle banche), ma allo stesso tempo vischioso, parassitario, granulare. Organizzarsi significa innanzitutto: durare. Occupare lo spazio sottratto alla sovranità dello Stato, far approdare all’intelligenza dei sensi e alla parola – alla tessitura etica – il tempo sospeso della rivolta, rendere inutile lo scambio mercantile.
Di sommossa in sommossa, di distruzione in distruzione, l’attività umana, tragicamente menomata dalla tecnosfera in cui viviamo, ritroverà il proprio aver luogo e farà il proprio tempo.
A partire da piccoli e significativi contatti, dobbiamo conoscere il territorio: dai vicoli agli androni, dalle banche dati ai rifornimenti di armi, dai collaborazionisti nei quartieri ai depositi di pasta. Guerra civile significa innanzitutto fine della neutralità, assunzione consapevole del vecchio adagio eracliteo: “anche i dormienti reggono l’ordine del mondo”.
Ma la guerra civile apparecchia anche le condizioni per le peggiori chiusure identitarie, facendo dell’integralismo non tanto un “arcaismo tecnicamente equipaggiato”, quanto una risposta perfettamente contemporanea. Non solo per l’equazione oppressore=infedele con cui seduce, ma per la comunità materiale (mense, bombole del gas, assistenza) che si premura di fornire.
Anche in questo senso, autonomia e rivolta sono sempre più strettamente collegate. La nostra dipendenza dall’organizzazione tecnologica della società è schiacciante. Distruggerne i gangli è necessario, ma non sufficiente. E questo non per le prospettive di dopodomani, ma per la rivolta di oggi. I blocchi selvaggi che hanno paralizzato per settimane Buonos Aires, nel 2001, hanno rivelato quanto sia fragile e parassitaria la vita nelle metropoli: dopo qualche tempo, non c’era più da mangiare. L’ordine di interrompere quella forma di lotta non è partito da qualche capo politico, ma dalle fauci stesse del mostro urbano. Riprendere contatto con le mani e con la terra è un’esigenza rivoluzionaria fondamentale. (Questione che qui sfioro soltanto, ma su cui sarà importante tornare).
Trent’anni di controrivoluzione sono finiti.
Il sabotaggio può tornare ad essere altro dalla testimonianza, dal gesto estetico o dalla promozione del proprio gruppo, per farsi blocco effettivo di un ingranaggio, di un dispositivo, di un movimento di truppe, la dimostrazione pratica della distruttibilità del sistema e il varco in cui l’intelligenza facinorosa e la condivisione sediziosa possono sgattaiolare, uno squarcio di contro-mondo che libera territori nelle città come negli animi.
Il cappuccio può diventare altro dal segno identitario di una componente politica, per farsi forza d’urto dell’anonimato, di ciò che è speciale, cioè proprietà di nessuno, appropriabile da chiunque.
La gioventù riottosa rivela la propria autonomia armandosi dei propri mezzi (di attacco, di autodifesa, di cura), rifiutando il lavoro come l’ozio amministrato.
Quando qualcosa accade, esserci, sapendo che a volte il modo migliore di esserci è andare altrove, ad aprire altre crepe, a forzare altri depositi, a sabotare altre macchine di morte.
Nella consistenza delle situazioni, ognuno scoprirà i suoi.
Il resto è malaugurio.
Giovanni Marrone