Subversive bookfair in Brussels

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Prospettive apocalittiche

La questione rivoluzionaria è una linea di frattura più o meno netta in seno al movimento anarchico internazionale, in certi luoghi più che altrove.

Da un lato LA rivoluzione, miraggio di un’oasi lontana, per la quale noi avremo il tempo di crepare più volte di sete nel deserto, prima di vederne una qualsiasi realizzazione materiale. Questa visione della rivoluzione è da considerarsi come evento da attendere tranquillamente, dato che in ogni modo non dipende dalle nostre azioni, ma da un risveglio delle masse. Per i rivoluzionari di questo tipo le condizioni non sono mai veramente coincidenti per la rivoluzione, ed ogni tipo di offensiva che non sia “di massa” sarà il prodotto di un’impazienza prematura e avanguardista che si sostituirebbe alla parola e agli atti dei veri soggetti rivoluzionari, che non sarebbero i rivoluzionari…

Dall’altro lato, l’anti-rivoluzionario, che fustiga i rivoluzionari con l’accusa di non far altro che attendere, temporizzando la rivolta, impedendo a coloro che desiderano vivere l’anarchia qui e adesso, di farlo. Di fatto la rivoluzione, come avvenimento concreto sarebbe una sorta di miracolo che viene auspicata ma che non arriva mai, un paradiso lontano.

Sfortunatamente, dato che l’epoca lo esige, di prospettive apocalittiche, cioè millenariste, se ne sono sviluppate a destra e a manca, e contrariamente a questo passato lontano, si ritrovano non solo in ambienti mistici, cospirazionisti o in seno a fanatismi religiosi. Siamo arrivati ad un punto dove la questione della “fine del mondo” ossessiona le discussioni in maniera più o meno seria. La fine del mondo per il 2012, il giudizio finale, il ritorno del messia, il terzo occhio e altri discorsi mistico-religiosi si disputano il podio escatologico con la prospettiva terrificante di un olocausto nucleare o di una guerra mondiale o civile totale. Ma da qualche parte sul podio, circola l’idea di un sistema che crollerebbe da solo sotto il peso dei suoi abusi. Il crollo ineluttabile del capitalismo dei marxisti rivisitati al limite del ventunesimo secolo e delle sue “crisi” economiche, sociali ed ecologiche. Un crollo ipotetico accolto sia con speranza che con timore. Certo, quest’ipotesi mi pare ben poco seria, il capitalismo attraverso la sua storia avanza di crisi in crisi, sempre rinforzato di ristrutturazione in ristrutturazione.

Questa visione della rivoluzione che si metterebbe in moto tutta da sola, senza di noi, senza di me e in qualche maniera sotto l’impulso o spinta del vecchio mondo che si autodistrugge, non offrirebbe come prospettiva immediata che l’attesa. Mettere ogni nostro desiderio in un futuro inevitabile permette più facilmente di accettare l’esistente. La credenza di Marx nell’ineluttabilità del comunismo lo spinge, lui e i suoi discepoli, a proporre l’industrializzazione e lo sfruttamento capitalista come delle tappe necessarie al suo avvento, l’ideologia dell’ineluttabile crollo finisce forzatamente per giustificare da una parte una prassi basata unicamente su “autodifesa sociale” per rispondere al nemico e dall’altra l’evasione da questa realtà che incontriamo quotidianamente, molto concretamente.

Ben inteso, questa visione di un vecchio mondo che crollerebbe sotto il proprio peso, rende obsoleta la necessità insurrezionale, non lasciando spazio che per un attesa, un porsi sulla difensiva. L’”autodifesa sociale” (squat, modi di vita alternativi, comunità, sopravvivenza…) termine alla moda, ci darà tutta la sua forza, la miseria dell’ecologismo con la preservazione reazionaria del “pianeta” ci farà tornare ad uno stato precedente (ma quale?); o ancora potremo consacrarci alla difesa delle “popolazioni indigene”, o all’antirepressione condizionati unicamente dal nemico, ecc.

Poiché in ogni modo, non c’è bisogno di attaccare le strutture dello Stato, del capitalismo e dei meccanismi di dominazione che reggono i rapporti umani, dato che questi sono votati al crollo, come per magia.

In fondo i dibattiti estremamente puntigliosi che consegnano i partigiani dell’ineluttabile crollo del sistema non mi interessano veramente, che siano essi “comunitaristi” o anarchici. Ciò vuol dire che qualsiasi sia la conclusione, la mia visione delle cose non ne risulterà in niente alterata. Se il capitalismo dovesse realmente crollare tutto solo, questo non cambierebbe per niente il fatto che io non desidero attendere in alcun modo questo evento pazientemente, continuando a vivere questa miserabile vita di mediocrità che mi si offre di già nell’attesa.

Io sono un anarchico, un rivoluzionario, non credo pertanto che LA rivoluzione avrà luogo, ne oggi ne domani. Ciò nonostante io tendo verso la rivoluzione, cioè i miei pensieri e i miei atti sono orientati verso un sovvertimento totale di questo mondo, e verso una rottura completa col vecchio mondo. È in ciò che io sono rivoluzionario, non per opportunismo, non c’è niente di peggio, secondo me, di coloro che si dicono rivoluzionari per il solo fatto di essere animati dalla convinzione che la rivoluzione, come avvenimento concreto avverrà durante la loro vita. No, essere rivoluzionario vuol dire portare nella propria attività concreta e nella propria produzione teorica i germi di un altro mondo, così com’è vero che sono indissociabili i mezzi e i fini per arrivarvici.

È innegabile che la vita che viviamo, così come lo stato del mondo sono oggi delle cose terrificanti. Infatti, mi pare quasi inimmaginabile, nelle condizioni nelle quali si trova l’umanità oggi, immaginare un sovvertimento radicale che porterebbe alla fine di ogni autorità. Si può perfino affermare che la prospettiva di un’insurrezione generalizzata oggi, porti in se tanta speranza quanta angoscia. In questo mondo dove si stravolgono le ideologie rancide come il razzismo, i meccanismi identitari e comunitaristi, la sete di potenza, l’avidità, il consumismo, la concorrenza economica o sociale o ancora il sessismo, un’insurrezione darebbe certamente luogo, in più a ciò al quale noi potremmo riconoscere e partecipare, a una grande quantità di eventi tragici e insopportabili.

Detto ciò, mi pare ancora più incongruente e lontano parlare di una rivoluzione anarchica.

Bisognerebbe quindi immaginarsi una rivoluzione di milioni e milioni di anarchici, in una qualche maniera il vecchio sogno degli anarchici aderenti alla C.N.T. che, se è rispettabile come sogno, non è vero dire che una chimera funge da pretesto all’inerzia e all’attesa. Se la rivoluzione o l’insurrezione c’è, gli anarchici non resteranno semplici spettatori. Portare ogni cosa verso la critica dell’autorità in generale, tentare di respingere finché possibile ogni cattivo riflesso appartenente a questo mondo, senza per questo avere il ruolo di poliziotto, ma anche farsi piacere e seguire i desideri di vendetta accumulati, colpo su colpo, tanto contro lo Stato e l’economia che contro la società.

Essere rivoluzionario secondo me, è dunque essere animato, da una tensione verso un’altra cosa. Una tensione che si materializza qui e ora, tutti i giorni, nel più piccolo atto di guerra.

È un imbrago progettuale nel quale ogni atto, anche insignificante, che porta il rivoluzionario, sommato all’identificazione di questo mondo come un ostacolo al progetto rivoluzionario. È anche in un certo qual modo una responsabilità, perché mettersi in gioco nella lotta mi sembra inevitabile. Dichiararsi apertamente rivoluzionario comporta una quantità di rischi e di pericoli. Non bisogna attendere, dato che ci dichiariamo in conflitto con la società, che questa, attraverso lo Stato o meno, cerchi di vendicarsi a sua volta contro di noi. Nella vita le cose sono ben più fini che un tale schema semplicistico.

Questo mondo, lontano dall’autodistruggersi, dovrà dunque essere distrutto, questa è l’opera del rivoluzionario, non potrà essere evitata. Come disse qualcuno, se la questione non è di «fare la rivoluzione» questa diviene «come evitarla?».

 

Un altro rivoluzionario senza rivoluzione

Tanzschritt der Dogmen

Ich schreibe diesen Text als mein Lesen einer Geschichte die viele andere Menschen zusammen mit mir durchlaufen haben. Dennoch begreife ich, dass ein und dieselbe Geschichte, so klein sie auch sein mag, in ein Farbenprisma von Interpretationen zerfällt, was unbezweifelt mit der nicht zu reduzierbaren Perspektive eines jeden Individuum übereinkommt. Leider kommt diese Vielfältigkeit selten zum Ausdruck. Mit diesem Text will ich schon mal eine Farbe hinzufügen. Ich denke damit einige Diskussionspunkte anzuführen, die für Gefährten im Ausland erkennbar sind.

Mit diesem Text will ich diesen Diskussionen „Daseinsberechtigung“ geben, ohne an der Buchmesse selbst den Rahmen der Perspektive sprengen zu müssen, der vorgestellt wird. Wenn auch die Fragen die ich zur Sprache bringe einerseits eine aktuelle Diskussion unter Anarchisten in Belgien wiedergeben, so sind sie, andererseits, hindurch die gesamte Geschichte des Anarchismus schon immer „ein Problemkind“ gewesen.

 

Ein Schritt nach vorne…

Es wurde in unserem begrenzten Kontext schon ein gewaltiger Weg zurückgelegt. Während vieler Jahre wurde jede anarchistische Aspiration in Belgien durch ein Lifestyle-Ghetto zu Tode geknüffelt, worin die einzige Linie die bestand, jene einer sich langsam abzeichnenden Laufbahn bei einer NGO war. Und wenn nur wenige sich selbst Anarchisten nannten, so war das weil es nur wenige Anarchisten gab und man eher von einem Aktionsmilieu sprechen konnte, das verschiedensten Sachen als Zugtier dienen konnte. Dieses Milieu sorgte zeitlich für eine gewisse street-credibility von NGOs, empfand selbst aber auch alles andere als Ekel beim Gedanken an einen flinken Schuss Reformismus. Ein sehr streng umschriebener Pazifismus schien manchmal die ungeschriebene Regel zu sein, die dies alles zusammenhielt: die einzige „politische“ Linie die mit relativ viel Zustimmung rechnen konnte. Von Verbreitung von Ideen war – aufgrund des Mangels an Ideen und Diskussion – nicht die geringste Sprache.

Es hat so einiges gebraucht um aus diesem Ghetto auszubrechen und Initiativen zu entwickeln, die unseren anti-autoritären Wünschen näher kamen. Der Durchbruch kam durch aufeinander folgende Diskussionen und Ereignisse, aber auch dank Veröffentlichungen und des entwickeln verschiedener Aktivitäten. Ich habe von diesem Lernprozess genossen und es sind dabei einige Kampferfahrungen gemacht worden, die unbezweifelt ein Nährboden für interessante Diskussionen liefern. Und doch hat sich, meiner Ansicht nach, der eroberte Horizont auch schnell schon wieder eingeengt.

 

…und einer zurück

Angesichts der Einschränkungen die das aktivistische Milieu uns auferlegte, wurde nach Mitteln gesucht, die den Bruch zustande bringen konnten. Die Entwicklung und Ausarbeitung anarchistischer Ideen, das Erfahren von Aktionen ohne Vermittlung, die Kritik an der abwartenden Haltung, die Kritik an der formellen Organisation, die Verbreitung von Ideen…all dies waren Stück für Stück unentbehrliche Instrumente um zu einem eigenen Projekt zu gelangen. Heute denke ich, dass viele dieser Instrumente erstarrt sind, was sie zu neuen Dogmen oder fixen Ideen macht. Au suivant!

Wo früher Schüchternheit geherrscht hat um Idee zu verbreiten und man so den Taten die daraus hervorgekommen sind, die eigentliche Kraft verwehrt hat, scheint die Verbreitung von Ideen nun erneut einen zentralen Platze einzunehmen. Zurecht wird es als ein Mittel betrachtet den beschränkten Zirkel von Gefährten zu durchbrechen. Aber die Verbreitung von Ideen durch eine gewisse Gruppe von Menschen, erfordert noch immer ein fortwährendes Abtasten, Anpassen und Entwickeln von Ideen. Anders versandet die Verbreitung von Ideen in der Einbahnkommunikation stromlinienförmiger Positionen und ziehen individuelle Klemmtöne den Kürzeren. Oftmals wurde durch die Verbreitung von Ideen die Möglichkeit interner Diskussion und Dynamik zunichte gemacht (keine Zeit mehr für Blätter die die Diskussionen rückkoppeln z.B.).

Das Lifestyle-Ghetto des aktivistischen Milieus liess sich oftmals in Termen von „Autonomie“ umschreiben: der Kampf für ein Jugendzentrum, ein autonomes Zentrum, ein Ort für Aktivitäten…So wurde die Autonomie als losgelöstes Konzept auch zurecht kritisiert, die Erfahrung machend, dass das Erreichen dieser Kampfziele (autonomes Zentrum etc.) oftmals gleichzeitig mit dem Ende des Kampfes tout court einherging. Einzig in Wechselwirkung mit Elementen des Kampfes bleibt die Autonomie lebendig und behält sie einen widerspenstigen Inhalt. Beginnend mit dieser Kritik entwickelte sich jedoch die Neigung, alle Aspekte des Lebens an dem Kriterium des ‘Kampfes’ zu abzuwägen. Die Aktivitäten die nicht in das Kader des Kampfes passten, wurden manchmal somit als individueller Vorzug abgetan, wodurch der ‘Kampf’ auch sofort vom Individuum los gekoppelt und darüber hinaus gehoben wurde. Dadurch wurde meiner Ansicht nach eine wichtige positive Dimension aus der anarchistischen Praxis weg radiert. Die Autonomie komplett auf den Abfallhaufen zu schmeissen (d.w.s. die schnellst mögliche Anwendung unserer Ideen in der Praxis) führt zu einer unnötigen Unterbewertung der Eigenheit und einer grenzenlosen Überbewertung einer abstrakten Freiheit.

Zurecht wurde auch die Passivität und die totale Abwesenheit oder sogar das verdächtig machen eines jeden politischen Projekts kritisiert. Das frei-und-froh wog schwer auf jedem Versuch, eine Dynamik ins Leben zu rufen und Themen mit einer gewissen Bestimmtheit ins Auge zu fassen.Aber auch hier begann die Kritik im Laufe der Zeit an der Aktivität der Kritiker zu schaben: die Betonung wurde immer mehr auf strategische Fragen gelegt und es wurde immer schwieriger einen gewissen Abstand gegenüber den eigenen Aktivitäten zu bewahren. Dadurch wurde der Erstarrung einzelner Methoden und Hypothesen natürlich freie Bahn gegeben.

Der Bruch mit dem ideologischen Pazifismus war möglicherweise der wichtigste. Er illustrierte in der Praxis eine tiefe Verankerung im Legalismus und formte eine enorme Einschränkung für jede anti-autoritäre Aktivität. Sie hat einem Diskurs Platz gemacht, wo Termen wie ‘Befriedung’ aber auch ‘Krieg’ angewendet werden, ohne ein Minimum an Erklärung abzugeben. Dass die autoritäre Gesellschaft befriedigt sein soll, fragt immerhin nach einigen wichtigen Nuancen (sicher wenn man einige Sätze weiter liesst, dass die Gewalt des einen oder anderen Aufstandes nichts ist in Vergleichung mit der täglichen Gewalt der Gesellschaft) und dass Gewalt (nicht zu sprechen von Krieg) per se zu einem aufständischen Prozess beitragen soll, fragt genau so sehr nach Erläuterung, Diskussion etc.

Wir nähern uns den Endnoten dieser Erörterung. Die Kritik am Reformismus war bestimmt eben so fundamental wie die am Pazifismus. Sie sorgte dafür, dass die eindeutige Linie zwischen Verbesserern und Aufständischen sichtbar wurde. Zur gleichen Zeit ist die Kritik am Reformismus zuallererst eine Weigerung der Vermittlung und Bettelei. Sie unterschreibt niet notwendigerweise die revolutionäre Hypothese und ihre schwer beladene Geschichte. Die Frage der Revolution ist, auch in Zeiten die in allen Hinsichten geladener mit Revolution gewesen sind dann die unsere, nie selbstverständlich gewesen. Es hat schon immer Menschen gegeben, die den Term aufgrund seines eigenen Inhaltes weigerten: die Umwälzung von dem einen Zustand in einen anderen. Einen stürmischen, einmaligen Drehmoment in der Geschichte, der für immer mit der Ausbeutung, Unterdrückung und Gehorsamkeit abrechnet. Danach? Windstille, das Stillstehen der Zeit, das Ende der Geschichte, die Endzeit…Es hat schon immer Menschen gegeben, die dem Aufstand, individuell oder Kollektiv, als ein Moment und ein Bestandteil des Lebens, mehr Vertrauen entgegen gebracht haben. Ein Moment der seinen Stempel aufdrückt und sodann wieder weggewischt wird durch einen neuen Golf. Der Aufstand der viele Formen hat, der mich nicht erneut einrichten will, der sich nicht durch eine Flagge einfangen lässt. Der Aufstand der immer eine Methode bleibt und nie zum Ziel an sich wird; den ich in den kleinsten Ecken meines Lebens eben so gut hantieren kann wie im grossen Weltspektakel.

Durch den Impuls der Revolutionen in Nordafrika, dem Mittleren Osten und in kleinerem Masse auch die grossen Aufstände in Griechenland 2008, Frankreich 2005 und selbst London 2011, verloren all diese inhaltlichen Gründe jedoch ihre Relevanz und mussten wir laut einigen damit beginnen uns für die Revolution warum zu machen. Natürlich erkennen wir uns in der Kraft womit Menschen aufstehen gegen die sie umgebenden Zustände, aber die Erkennung und der mögliche Enthusiasmus der daraus hervorkommt scheint mir an sich sehr ärmlich. Angesichts der Ereignisse in Nordafrika, lag die Wichtigkeit viel eher in einer Untergrabung einer neuen Art des demokratischen Kolonialismus und der Gefahr einer fleckenlosen, durch die Weltgemeinschaft begleitete Transition. Dies zu thematisieren oder zum Beispiel über den Nationalismus zu sprechen, der dem sogenannten arabischen Frühling die ersten Knospen abgeknickt hat, ist jedoch bereits ein Zuviel an Kritik gewesen. Wir mussten vor allem voll mit Lob für die Revolution sein und aus unserem faulen Stuhl des anarchistischen Scharfrichters herunter steigen. Was mich selbst betrifft und meinen Teil angeht, verteidige ich diese Kritiken und Bemerkungen vollkommen und denke, dass sie zurecht Äusserungen eines besorgten Engagement sein können. Ein Besorgnis, angesichts der Entwicklungen die die Kraft des Aufstandes selbst erneut trockenlegen wollten: der Nationalismus der die Individuen (ja, auch die Massa Individuen 🙂 ihrer gerade entdeckten Kraft enteignet, der Demokratismus der uns hier die Möglichkeit einer Erkennung entnimmt usw. Das nie erreichte Ziel des Aufstandes, die freieste Entfaltung eines jeden Individuum hin zu seiner Eigenheit, wird genau durch die Empfindlichkeiten und die Handlungen die daraus hervorkommen beschützt.

Der Tanz ist zu Ende: ein Schritt nach vorne und einer nach hinten oder vielleicht doch auch ein bisschen zur Seite hin, und wer weiss welche Pirouetten uns noch erwarten? Auch während dieses Tanzes bin ich unbezweifelt auf viele Zehen gestanden. Wer sich jedoch auch nur während einem Augenblick zu einem bisschen Erkennung und Zustimmung verführen liess, den treffe ich gerne um ein bisschen informell zu plaudern und, warum auch nicht, für eine Diskussion an der kommenden Buchmesse. Wer das gerne möchte, kann mir im Voraus auch immer ein Mail auf die unten geschriebene Mailadresse schicken.

het.onderste.boven@gmail.com

Die Utopie

Schon seit längerer Zeit will ich etwas über gewisse Themen schreiben und nachdem ich einige Texte gelesen habe, glaube ich zu verstehen, dass das jene worüber ich schreiben will, ein Gefühl ist das auch bei anderen Gefährten anwesend ist.

Es geht um eine Anforderung ich schon immer gehabt habe und die niemals gewichen ist, im Gegenteil, in der letzten Zeit hat sie immer mehr Platz in meinen Gedanken eingenommen: ich spreche von der Utopie. Die Idee der Utopie verfolgt mich mit einem neuen und heftigen Nachdruck, und wer weiss, vielleicht weil ihre Suche langsam aber unerbittlich weniger obsessiv anwesend ist, im Herzen von was wir als anarchistische Bewegung definieren können. Diesen Eindruck habe ich zumindest.

Vielleicht kommt es durch die Desillusionen der vergangenen Jahre, die heute als Niederlagen abgetan werden, durch die Ermüdung der Aufsehen erregenden Schläge (eher moralisch als physisch) die immerzu bereitstehen wenn man kämpft und dabei habe ich es noch nicht über die Perspektive die besagt, dass deine wildesten Träume nie Gestalt annehmen werden, aber es scheint mir als ob ein gewisser Trend in der Luft hängt, der sich mit weniger zufrieden stellt: es ist besser einen kleinen Kampf zu gewinnen der uns ein wenig Moral einbläst, als nochmals eine Niederlage zu untergehen gerade wenn wir denken, dass ein definitiver Sieg in Reichweite liegt. Es ist besser die Dinge dieses miserablen Bestehens ein bisschen anzupassen, als das Risiko zu nehmen sie nie verbessern zu können wenn man nach einer definitiven Umwälzung stirbt. Was diese Zeiten uns bieten ist eine permanente Suche nach Anpassungen an Situationen und genau das verdrängt die Spannung, die uns davon abgehalten hat uns anzupassen; die Raserei womit etwas um jeden Preis getan wird um sich ein wenig lebendig und aktiv zu fühlen, trägt das Risiko in sich die analytische Kapazität auf die Seite zu legen, wie auch die Kritik, die für das entwickeln einer eigenen Projektualität nötig ist. Es gelingt uns sogar dasselbe zu tun wie alle anderen und zu sprechen wie alle anderen weil wir denken, dass eine andere Sprache uns unverständlich machen würde und wir somit das Risiko eingehen würden, in Isolation zu verbleiben. Wir nehmen alle an denselben Kämpfen teil und als ob das noch nicht genug wäre, tun wir es auch noch gleich alle auf dieselbe Weise. Wir wenden dieselben, nach einiger Zeit Sterilität verursachenden Mittel an, nur um dann zu entdecken, dass wir unsere kreativen Kapazitäten begraben haben, indem wir zu engmaschig dem Parcours gefolgt sind, den die anarchistische Bewegung in der Vergangenheit gegangen ist. Nur um zu entdecken, dass wir die Vorstellung die wichtig ist für das Weiterführen der Kämpfe die wir angegangen sind, geschwächt haben…

Und wie steht es mit diesen Kämpfen? Als Mittel auf dem Weg nach etwas umfangreicherem und grandiosem, besteht die Gefahr, dass die Kämpfe ein Ziel an sich werden und dass wir auf diesem Weg die Utopie verlieren. Es kommt immer seltener vor, dass ich mit Gefährten über grössere Träume spreche. Dabei meine ich nicht die Tagträume die wir wieder zur Seite legen wenn wir unsere Fantasien von uns abschütteln, sondern ein sublimes Verlangen, nach dem wir uns richten, als etwas wonach man streben will, versuchen zu realisieren. Die Utopie ist für mich keine Trauminsel die nicht besteht in dieser Welt, sondern etwas das das Blut zum Herzen und zum Gehirn jagt, eine Idee die keinen Waffenstillstand zulässt; die Spannung ist es, die mich zum Handeln drängt und gleichzeitig das Bewusstsein das es zulässt, über die Angst zu siegen. Die Utopie ist einer der Gründe warum ich Anarchist bin weil einzig sie mir die Möglichkeit zu kämpfen bietet. Nicht nur für eine neue Welt, sondern für etwas das noch nie Realität gewesen ist. Das ist meine Utopie: der Versuch etwas wahr zu machen, das noch nie in Erfüllung gegangen ist, das Streben um in einer Welt leben zu können, die nicht die Welt von heute ist aber auch nicht jene die vor tausenden von Jahren bestanden hat. Etwas das wir einzig während dem Moment eines aufständischen Bruchs ausprobieren können, ein Moment der nichts weiter bedeutet als die Öffnung einer Möglichkeit, die es mir erlaubt mich nach einem tiefen Abgrund zu begeben und Höhenangst zu erleben, die Möglichkeit hinnehmend, dass sich in der Tiefe entweder etwas schrecklich Faszinierendes oder etwas absolut Furchtbares befindet. Kurzum, ein Sprung ins Unbekannte, ohne im Vornherein zu wissen wie die Gesellschaft wonach ich verlange aussehen muss, sondern beginnend mit dem, wonach ich verlange. Das Undenkbare denken als Grundvoraussetzung, um nach dem Unmöglichen streben zu können.

 

„Derjenige der von Beginn an ans Ende denkt, der das Bedürfnis nach Sicherheit hat, um dieses Ende zu erreichen noch bevor er begonnen hat, derjenige wird sein Ziel nie erreichen.“

A. Libertad

Entlang Brucheslinien

Etwas Seltsames ist passiert. Vor wenigen Jahren noch, wurde an Diskussionen über die Subversion dieser Gesellschaft, immer jene eine Bemerkung hinzugefügt. Als ob es nötig war um jene Prämisse auszusprechen, um nicht direkt beim unvermeidlichen Zynismus zurecht zu kommen. „Aber natürlich werden wir das nie miterleben“ oder „ Falls es jemals soweit kommt“. Dieses nie und jemals, diese beiden Seiten derselben Fata Morgana, hielten die Anti-Autoritäre Bewegung an der Infusion angeschlossen. Sie hinderten uns daran gewisse Fragen offen auf den Tisch zu legen. Sie versahen unsere Aktivitäten mit unsichtbaren Grenzen. Und vielleicht zurecht. Vielleicht konnten wir nicht mehr tun als gewisse Ideen und Taten, im Schatten der Gesellschaft, in der Marge der politischen Protestbewegungen, am Leben zu erhalten. Vielleicht hat die (repressive und ideologische) Reaktion auf die Kämpfe der 70er und 80er Jahre uns zwei Jahrzehnte lang überrumpelt. Die Gesellschaft der 90er und 00er Jahre liess uns nicht viel Luft um zu atmen. Aber wie es auch sei, es hat sich etwas verändert. Obwohl ich noch sehr jung bin, lebt in mir doch der Gedanke, dass die „sozialen Gegebenheiten“ nicht mehr die selben sind. Dass auch eine „anarchistische Perspektive“ nicht mehr die selbe sein kann und dass es bereits verschiedene Experimente gibt, die die neuen Möglichkeiten versuchen abzutasten. Und vielleicht ist es gerade aufgrund meiner jungen Jahre, dass ich überall Veränderung sehen will. In zwanzig Jahren wird sich zeigen ob die Welt noch immer in den gleichen Bahnen verläuft und dieselben autoritären Mechanismen der Ausbeutung und Unterdrückung spielen, ungeachtet einiger wenigen Anpassungen und Ausbesserungsarbeiten hier und dort. Und falls es so sein wird, dann soll es wenigsten daran liegen, dass unser Enthusiasmus es schlichtweg nicht gegen die konservative Gesellschaft aufnehmen konnte. Und nicht daran, dass wir schwiegen während wir eigentlich hätten sprechen müssen oder flüsterten während wir hätten schreien sollen. Lasst uns verhindern, dass der Grund dafür unsere leeren Hände sein werden, mit denen wir wie Bettler entlang dem Wege standen, bittend für ein Krümmel von Protest, während der Fortschritt an uns vorbeizog. Und das alles während wir den Stock hätten ergreifen können und diese makabere Karawane zumindest für einen Moment zum Stillstand hätten bringen können.

Um unsere Wut auf Papier zu bringen und unsere Verlangen in Worte zu fassen, greifen wir regelmässig auf Schriften zurück, deren Ursprung lange vor unserer Geburt zu suchen ist. Diesen anarchistischen Flugblätter aus alten Zeiten wird nicht selten nachgesagt über ihr Haltbarkeitsdatum hinaus zu sein. Nun, lassen wir gerade dies ihre Stärke sein. Anstatt eine Anwendung eines sterilen Models zu sein, eine Reproduktion als Beweis der eigenen Wahrheit, situieren sie sich am schärfsten Punkt des Messers Schneide, zwischen der totalen Kritik und der Anwesenheit in spezifischen Gegebenheiten. Nichtsdestotrotz müssen wir in der Lage sein die heutigen spezifischen Umstände begreifen zu können. Auf sozialem Gebiet kann man heute sehen, dass nach dem neoliberalen, ideologischen Anfall auf den Wohlfahrtsstaat in den 90er Jahren, jetzt mit dem echten Abbruch der sozialen Demokratie begonnen wird, mit der ökonomischen Krisis (pervers gezogen durch die neoliberale Ideologie) als konstante Drohung. Unterricht, Gesundheitswesen, Kultur, öffentliche Verkehrsmittel, Stadtentwicklung müssen nun nicht mehr so sehr ihren Wählermehrwert, sondern viel mehr ihren ökonomischen Mehrwert unter Beweis stellen. An allen Enden muss gespart werden, einzig der Repressionsapparat wird nicht unter Beschuss genommen (auch wenn die Gefängnisse und der Überwachungssektor teilweise privatisiert werden). Zur selben Zeit erzählen uns die europäischen Herrscher Merkel, Sarkozy und Cameron, dass die multikulturelle Gesellschaft gescheitert ist. Kurzum, vorbei mit der sachten Integration, den sozialen Reformen und Subventionen, der Verteilung der Machtsitze unter den Leitern der sozialen Bewegungen und Gemeinschaften. Der soziale Frieden wird uns immer öfter durch hartes Durchgreifen aufgezwungen werden, während Menschen aus dem Boot fallen. Entgegen der Feststellung, dass die Armut zunimmt oder sich aufrechterhält (die Perspektive um die soziale Leiter hinaufzuklettern nicht mehr besteht), dass gewisse Gruppen nicht willkommen scheinen in dieser Gesellschaft, dass einzig (solide) Arbeit Zugang zur sozialen Integration verschafft, dass das Gefängnis ein Ort wird, wo viele mit Sicherheit mehrere Male in ihrem Leben durchlaufen werden, sind die Konflikte auf den Strassen, zwischen den Ordnungshütern und jungen Leuten, zu einer Konstante geworden.

Die Aufstände im Norden von Afrika und ihre revolutionäre Unterströmung finden auch Widerhall auf der anderen Seite des Mittelmeers. Die durch die Medien am meisten thematisierten sind, wie so oft, wahrscheinlich auch jene die am uninteressantesten sind. Die Platzbesetzungen in Spanien (und anderen Ländern) und die Aufrufe zu „echter Demokratie“ scheinen oft nichts mehr als Verzweiflungstaten eines linken Wählerpublikums zu sein, das verwirrt ist, seit die sozialdemokratischen Parteien selbst, das sozialdemokratische Projekt begraben haben. Obwohl ich es sympathisch finde, dass Menschen sich Zeit und Raum nehmen um, wenn auch nicht alles, dann doch vieles in Frage zu stellen, wäre es doch naiv um hierbei stehen zu bleiben; der Pazifismus und der Konsens von öffentlichen Plena nehmen schon viel Zeit und Raum in Anspruch. Es gibt sogar Leute die es wagen zu behaupten, dass die Aufstände in der arabischen Welt pazifistisch waren und sich via Internet organisierten. Die Aufmerksamkeit der westlichen Medien galt vor allem dem Tahrirplatz (die Gründe dafür scheinen natürlich evident), aber ein vages Gefühl sagt mir, dass es doch hauptsächlich die Städte und Dörfer waren, da wo alle offiziellen Einrichtungen der Macht (Parteibüros, Staatsgebäude, Polizeikommissariate) angegriffen und niedergebrannt wurden, die die Regime auf die Knie gezwungen haben. Und wer Twitter während des Aufstandes in Ägypten versuchte zu folgen, verging von Langeweile und der endlosen Reproduktion der Nachrichten von Al-Jazeera (die dann erneut vor allem auf dem Tahrirplatz anwesend waren).

Unabhängig von den Limits der herrschenden Unruhe, gibt es einige ermutigende Konstante. Das grosse Stillschweigen von sowohl Griechenland im Dezember 2008, wie auch den französischen Banlieus in 2005 und anderen sozialen Konflikten gegenüber dem Staat. Es wurden keine Forderungen formuliert, keine Vertreter angedeutet und kein Dialog angegangen. Die Rekuperierungsmöglichkeiten werden dadurch ernsthaft eingeschränkt. Darüber hinaus zeigt die Demokratie deutlich ihren Unwillen um, ausser durch harte Repression, Antworten zu bieten. Sogar gegenüber den „Empörten“ guten Bürgern liess man den Knüppel regieren. Wahrscheinlich entscheidet sich der Staat jetzt für ein Szenario worin er für den Krieg aller gegen alle (oder Gemeinschaften gegen Gemeinschaften) wirbt. Eine Tendenz die bereits anwesend ist und auf anderen Kontinenten sich in voller Entwicklung befindet. Bei einer solchen Geschichte basiert der Staat seine eigene Legitimität auf der Rolle des Schiedsrichters (und nicht gezwungenermassen ein neutraler).

Lasst uns hier deutlich sein; ich bin nicht auf der Suche nach der, auf den sozialen Kontext anwendbaren und unvermeidlich zur Lösung aller Problemen führenden, Formel. Da hinzu kommt, dass der spezifische Kontext überall anders ist. Mit einem Mix aus Amüsement und Empörung haben wir feststellen müssen, dass die Illusion des historischen Determinismus noch immer am Leben ist. Und dass seine prophetischen Worte noch immer viele in seinem Bann vermögen zu halten. So gibt es jene, die den Aufstand oder Bürgerkrieg vorhergesagt haben und gleichzeitig darauf hingewiesen haben, dass er bereits anwesend ist. Oder jene, die voll sind mit Multitude oder Basisdemokratie, sowohl im Sein als in Worten. Der Kapitalismus habe uns einen Dienst erwiesen, indem er die Basis seiner eigenen Negation geschaffen habe. Jetzt müsse man ihn einzig noch von sich abschütteln und dies durch eine Art Formung von Selbstbewusstsein, einem politischen Projekt. Ich verstehe, dass allerhand Marxisten (Post-, Neo-, Akkoladen des jungen Marx oder von dem Marx des Flugblattes über die Pariser Kommune, etc.) ziemlich durcheinander waren, nachdem sich zeigte, dass sich die revolutionären Subjekte in Zielgruppen des Klientelismus und sozialdemokratischer Reformen transformierten. Einige sind vielleicht auch aus pragmatischeren Gründen von Farbe verändert (repressiver Druck, die Wurzel der akademischen Karriere, leere Mitgliedslisten…) In jedem Fall hat ein Teil davon die Dialektik über Bord geworfen. Nun begrüssen sie den Immanismus. Dasselbe philosophische Spielchen mit dem sich auch das Christentum zu erneuern versuchte. Als es allen deutlich wurde, dass es keinen Gott gab der über uns stand und uns strafen und belohnen konnte, und dass leben ohne Gott überaus möglich war, begannen sie uns zu erzählen, dass Gott überall ist (aber doch vor allem in den ‘guten’ Dingen) und dass wir Gott nicht als eine allmächtige (und somit gerechte oder ungerechte) Figur oberhalb der Welt betrachten mussten (auch wenn sie es waren, die dies jahrhundertelang behauptet hatten). So ist der Kommunismus nicht länger das Resultat eines gewalttätigen, politischen Ereignis; der Revolution. Denn er ist bereits anwesend und wir müssen ihn einzig noch zu seinem vollen Bewusstsein bringen. Auf diese Weise verschwindet auch der interessanteste Aspekt der Dialektik, der Bruch nämlich. Der Moment, indem deutlich wird wer Teil der revolutionären Kräfte ausmacht und wer Wert auf den Erhalt der heutigen Gesellschaft legt. In der marxistischen Version wird dies natürlich durch das respektive ökonomische Interesse festgelegt und somit kann nicht wirklich die Sprache einer freien Wahl sein (sonst würden das revolutionäre Subjekt und die Unumgänglichkeit/der Determinismus nämlich ihren Boden unter den Füssen verlieren). Ohne den inhaltlichen Bruch, kann uns sowohl die Multitude wie auch der Bürgerkrieg nicht versichern, dass sie nicht eine Fortsetzung des kapitalistischen Projektes sind, dass sie nicht einfach neue Erscheinungsformen autoritärer Mechanismen sind. Uns muss bewusst werden, dass seit dem Entstehen des Kapitalismus und des Staates, beide ziemlich erfolgreich im ersticken von Widerstand waren, indem sie sich jedesmal erneut einer Reform unterzogen. Durch Rekuperierung und Repression (und falls nötig ein Teil von sich selbst aufopfernd) haben sie sich anpassen und am Leben erhalten können. Und es ist gerade weil sie kein parasitärer Körper sind, sondern sämtliche sozialen Beziehungen durchdrungen haben, dass sie dabei so erfolgreich gewesen sind. Das ist der Grund warum der (individuelle) Aufstand so notwendig ist, zusammen mit der Kritik jeglicher Autorität und dem Willen, andere soziale Beziehungen an zu gehen. Wir müssen diesen Bruch in so vielen möglichen Momenten affirmieren um zu verhindern, dass wir sowohl als Individuen, wie auch in unserem Kampf, uns von autoritären Mechanismen mitreissen lassen.

Die Demokratie steht nicht mehr länger für das Ende des Horizonts, ist keine Selbstverständlichkeit mehr. Der soziale Frieden wird, durch die Erpressung der Arbeit (und dem Zugang zu Geld um zu überleben und „leben“/konsumieren) und der Repression, immer deutlicher zum auferlegten Frieden. Es genügt nicht mehr Löcher in die Mauer des sozialen Friedens schlagen zu wollen. Ich denke, dass der Einsatz heute höher liegt. Denn der soziale Frieden beginnt bereits viele Risse und Löcher aufzuweisen. Eine Unzufriedenheit und Wut schleicht herum. Und die religiösen und nationalistischen Prediger stehen klar um all dies zu rekuperieren. Wir müssen bereit sein zu zeigen, dass Solidarität, Selbstorganisation und direkte Aktion uns stärker machen können. Dass dies lebende Ideen sind die uns Kraft geben können gegenüber der Leere des kapitalistischen Bestehens. Wir müssen auch im Stande sein, Banden zwischen Gruppen zu kreieren, die sozial und/oder geografisch geschieden sind. Wir müssen eine Kreativität von Taten entwickeln, um die Macht in all ihren Formen anzugreifen und vor allem um die Konflikte aus ihrem traditionellen Territorium wegzuholen und ihnen eine grössere Dimension zu geben. Heute können wir sagen „Wir wollen Revolution“ weil dies keine leeren Worte sind, sondern Worte denen wir jeden Tag erneut mehr Bedeutung geben.

 

_Anon_

Die alte Geschichte des Internationalismus

Ein kurzer Blick auf die Zeit der Ersten Internationalen und der revolutionären Brüderschaften, die damals über die Grenzen hinweg eine permanent aufständische Spannung zu stimulieren und leben wussten, vermag schon viel über die paradoxe Situation auszusagen, in der wir heute leben. Noch nie gab es so viele Transport-, Reise- und Kommunikationsmöglichkeiten, noch nie ähnelten sich die Umstände verschiedener Länder so sehr und doch scheint es als ob wir, Anarchisten und Revolutionäre, uns noch nie so hart an die staatlichen Grenzen gehalten haben wie wir es heute tun. Paradoxerweise scheint die Globalisierung der Herrschaft Hand in Hand mit der De-Internationalisierung ihrer erklärten Feinde zu gehen.

Es ist nicht so als ob sämtliche Überreste der alten Geschichte des Internationalismus weggefegt wurden aber lasst uns ehrlich sein; die Situation ist miserabel. Einige solidarischen Gesten und, im besten Fall, das Teilen von Erfahrungen und Projektualitäten, ist auch schon beinahe alles. Es reicht ein Blick auf den schändlichen Mangel an Perspektiven im Bezug auf die Aufstände auf der anderen Seite des Mittelmeeres zu werfen (oder wenn man will, auf die Revolte vom Dezember 2008 in Griechenland) um sich darüber klar zu werden.

Die Tatsache, dass die Herrschaft die Kommunikation in eine Ware verwandelt hat, ein Instrument der Abstumpfung und Entfremdung, hat auch den Traum des revolutionäres Internationalismus nicht unberührt gelassen. Heute scheint es beinahe, als ob der einzige Internationalismus innerhalb anarchistischer Kreise, im weltweiten Netz der Verbreitung von Passivität zurück zu finden ist, mit seinem endlosen Strom unbegreiflicher (weil losgelöst vom Kontext und des Lebens eines jeden), unantastbarer (weil einzig bestimmt für Konsum vor dem Schirm) und verfliegender (weil vertrunken in einem wahren Datenbombardement) Information. Selbst das Erleben von Zeit und Raum hat sich tiefgehend verändert. Was heute noch eine Neuigkeit gewesen ist, ist morgen bereits vergessen. Und je schneller das Dort durch die Informationskanäle zum Hier gelangt, desto weniger scheint das Hier mit dem Dort in Dialog treten zu können. Es besteht kein Zweifel; jegliche Erneuerung einer internationalistischen Perspektive muss unmittelbar auch eine neue Erfahrung und Auffassung von Zeit und Raum entwickeln. Anderenfalls bleibt ihr nichts anderes übrig als einzig im Zeit- und Raumkader der Herrschaft zu gedeihen. Wir könnten sogar eine Parallele zum alten Internationalismus legen: in dieser Zeit waren die Nation-Staaten in vollem Wachstum und enthielt die Kreation eines internationalen Raums bereits an sich einen Bruch mit der Herrschaft.

Auf welchen Wegen könnte der Internationalismus, die internationale revolutionäre Solidarität, erneut eine Kraft werden und ihre heutige technologische und aktivistische Verstümmelung überkommen? Dies ist eine Frage die erneut auf den Tisch gelegt werden muss, es sei denn man glaubt, dass je mehr die Herrschaft sich auf universelle Weise etabliert, desto stärker ihre Gegner sich in lokalen Mikrokosmen festigen müssen.

Auch in einer nicht so weit zurückliegenden Vergangenheit, unternahmen Anarchisten einen Versuch eine neue Art der Internationalen zum Leben zu bringen. Ein Projekt das offensichtlich frühzeitig sein Ende fand. Uns zufolge beginnt die Neubewertung des Internationalismus nicht mit der Formung einer formellen Organisation (unabhängig davon welchen informellen Schein sie sich vielleicht auch geben mag), sondern durch die bewusste Vervielfältigung von Gelegenheiten, von sowohl Diskussionen wie auch dem Kampf. Wir alle wissen wie wichtig und stimulierend es sein kann, Kampferfahrungen auszutauschen. Und wenn es wahr ist, dass die soziale Instabilität in den kommenden Zeiten einzig noch zunehmen wird, und dass die Periode des dreissig jährigen Friedens auf dem europäischen Kontinent seinem Ende nahe ist, dann bleibt kein Zweifel übrig, dass es erneut an der Zeit ist Hypothesen zu entwickeln. Wenn man die Texte liest, die innerhalb der antiautoritären Brüderschaft zu Zeiten der Internationalen zirkulierten, könnte man beinahe von einer Besessenheit von Hypothesen sprechen, einem permanenten theoretischen und praktischen Abtasten des sozialen Horizonts nach Gelegenheiten, um das Feuer an die Lunte zu legen und den Aufstand vorzubereiten. Heute spricht uns nicht nur ihr revolutionärer Elan, ihr unzähmbarer Enthusiasmus noch immer an, sondern auch ihr Mut um Fehler machen zu dürfen, um zu verlieren, um Niederlagen zu erleiden (oder eher, eine ganze Reihe von Niederlagen). Wer heutzutage nicht bereit ist mit seinem Kopf gegen die Wand zu laufen, eine immerzu mögliche Konsequenz des Willens, die Utopie in den Schoss des Zusammenstosses zu lotsen, kann sich besser mit der Kontemplation der Ereignisse beschäftigen. Denn die Komplexität der kommenden Konflikte; die Spannung, als was es einige beschreiben, zwischen dem sozialen Krieg und dem Bürgerkrieg; der Verlust der Sprache, um Ideen und Träume zu übermitteln; die tiefgehende und unverkennbare Verstümmelung vom Individuum, sind nicht simple Voraussagen, sie sind bereits jetzt schon Tatsachen. Es liegt an uns erneut den Mut zu finden zu träumen, es zu wagen diese Träume in der Erarbeitung revolutionärer und aufständischer Hypothesen zu verwirklichen, ob die nun ihren Ausgangspunkt in einer explosiven Situation haben, einem spezifischen Kampf der bis zu seiner Konsequenz des Anfalls geführt wird, einem mutigen Versuch entgegen dem Aufmarsch der Schlachtung und des Bürgerkrieges in Aufstand zu kommen,…

Vielleicht kann ein Beispiel hier verdeutlichend wirken. Die Aufstände auf der anderen Seite des Mittelmeeres haben zeitweilig die Pforten Europas forciert. Zehntausende von Menschen begaben sich illegal über die Grenzen und viele unter ihnen trugen noch immer die süsse Erfahrung der Revolte mit sich herum. Konfrontiert mit dieser völlig neuen und unvorhersehbaren Situation, reicht es nicht mehr aus unsere bekannten Rezepte über den Kampf gegen die Ausschaffungsknäste und Grenzen erneut zum Einsatz zu bringen. Bewaffnet mit den Kampferfahrungen die wir bereits gemacht haben, hätten wir vielleicht reell und konkret über eine Hypothese nachdenken können, die, durch die zehntausenden von Menschen, den Aufstand auch wirklich auf den europäischen Kontinent hätte bringen können. Dasselbe gilt übrigens auch für die Periode von Aufständen in Tunesien, Ägypten,…selbst: welche Initiativen hätten wir nehmen können um die Fackel des Aufstandes auch hier zu entzünden, oder um bescheidener zu beginnen, wie hätten wir die Revolten dort verteidigen und unterstützen können? Warum haben wir nebst symbolischen Akten nicht auch wirklich und definitiv die Botschaften dieser Länder besetzt und die Botschafter selbst verjagt, die, wie vor allem im Falle von Libyen, regelrecht Söldner am rekrutieren waren um zu Hause Aufständische abzuschlachten? Ich nehme an, dass hiermit unmittelbar deutlich wird, dass es unentbehrlich ist sich auf internationalistischer Ebene möglichen Hypothesen anzunähern.

Lasst uns diese Sache vielleicht auch noch von einer anderen Seite betrachten. Wie oft sind wir in spezifischen Kämpfen bei Momenten angelangt, wo es uns simpel an einer genügenden Anzahl Gefährten fehlte (sowohl in quantitativer wie auch in qualitativer Hinsicht) um zu probieren was möglich schien?? Wir müssen uns selbst nicht zum Narren halten. Während der Reihe von Aufständen in Europa waren nie einzig die Gefährten die dort wohnen anwesend! Wie oft könnte der härter werdende Griff der Repression während eines spezifischen Kampfes (erhöhte Überwachung der betroffenen Gefährten, Druck, Einschränkung des Bewegungsraumes und auch die Zeitvergeudung des Umgangs mit den Wachhunden des Staates) nicht entkräftet werden durch das Kommen und den zeitlichen Verbleib einer Anzahl Gefährten? Ich glaube, dass wir uns getrauen sollten, diese Frage ohne a priori’s und Angst in Betrachtung zu ziehen und nach möglichen Wegen zu suchen. Es ist nicht undenkbar mit internationalen Formen von Koordination zu experimentieren, ohne dabei auf formelle Erklärungen, offizielle Kongresse oder, was irgendwie die andere Seite desselben Blattes ist, eine totale Heimlichkeit zurückzugreifen, was einzig bei den Untersuchungsrichtern die Phantasmen der Internationalen schüren würde. Vielleicht lässt sich auch darüber nachdenken wie, z.B. durch ein regelmässiges Korrespondenzbulletin, eine eigene Temporalität und ein eigener Raum geschaffen werden könnte, der nicht länger von den nach Macht stinkenden Informationskanälen abhängig ist.

Über diese Fragen lässt sich unbezweifelt noch viel mehr sagen, als in diesem Text getan wurde. Ich bin mir davon bewusst, dass dieser Text einzig vermag ein paar Steine ins stille Wasser zu werfen aber ich hoffe, dass sie zu einer Diskussion beitragen können die es sich zutraut einen Anzahl Möglichkeiten den Weg zu ebenen.

 

Ein Reisender

Im Käfig der Dogmen…

Es war nicht nur die soziale Befriedung die unsere revolutionäre Vorstellungen während all der Jahre in eine Zwangsjacke drängte. Es war nicht nur die Welt der Macht und des Geldes, die unsere wildesten und eigensinnigsten Träume erstickte und eintauschte für Ware die unmittelbar zu konsumieren ist. Es war auch nicht nur das grosse Gesprächscafé der demokratischen Meinungen, das unsere Ideen daran hinderte zu wachsen und sich auszubreiten. Genauso war es auch bei weitem nicht nur die allgemeine Verschiebung nach Rechts, die uns das Schweigen auferlegte und uns dazu zwang, unsere tiefsten Verlangen, Gedanken und Wörter hinunter zu schlucken.

Es sind eben so sehr die Dogmen unserer eigenen Bewegung die uns unsere Hände jahrelang gefesselt und uns am Sprechen gehindert haben, uns wie ein Klotz am Bein gehangen haben. Wir haben zu lange geglaubt, dass das verbreiten unserer Ideen etwas Schlechtes ist weil wir nicht Stalin oder Hitler haben ähneln wollen. Wir haben zu lange geglaubt, dass wir unsere Ideen nicht verbreiten dürfen, da wir bang gewesen sind mit Missionaren verglichen zu werden. Genauso wie man Wasser mit dem anti-autoritären Wein vermengt, um niemanden zu schockieren. Zu lange, viel zu lange, haben wir uns selbst ein Tuch um die Augen gebunden und geglaubt, dass unsere Ideen nicht zugänglich, unverständlich für „die Massen“sind. Wir hatten vergessen, dass unser befreiender Weg bei einem individuellen Verlangen nach Freiheit und Experiment begonnen hat und, dass die Konfrontation mit anti-autoritären Ideen uns einen Stoss nach vorne gegeben hat. Eingeschlossen in unseren Ghettos, unseren Gedanken, denkend so anders als der ganze Rest zu sein. Dass die Spuren dieser Ghettos, in einer jungen Bewegung die sich selbst davon frei gebrochen hat, noch immer anwesend sind, ist nicht verwunderlich. Nicht verwunderlich, aber doch störend. Sie hindern uns daran unseren Stolz zu voller Blüte aufblühen zu lassen, unser Stolz uns auf anti-autoritäre Ideen zu stützen, als Anarchisten unter freiem Himmel, in der Welt. Die Ghettos haben dafür gesorgt, dass wir nicht mehr in Worte fassen konnten was in uns sitzt, dass wir uns selbst als Marginale betrachtet haben. Innerhalb der Ghettos wurde uns verboten nach zu denken, denn das war etwas für Intellektuelle. Es wurde uns verboten zu schreiben, denn das taten nur Studierte. Und so lernten wir, abhängig davon mit wem wir sprachen, uns in anderen Worten auszudrücken, drehend mit dem Wind, immerzu drehend mit dem Wind.

Für all jene die nachts über die Revolution fantasierten, war es schwierig, diesen Traum im Leben zu halten. Denn die Welt um uns herum wurde immer totalitärer. Gefährten sagten, dass wir unsere jugendlichen Träume begraben mussten, da es schlussendlich doch keinen Sinn hatte. Verlangen nach Revolution, wurde gesagt, war nichts anderes als warten auf den grossen Abend. Selbst sprechen über ein Verlangen nach Revolution durfte man nicht, denn das bedeutete, den Menschen eine Fata Morgana vors Gesicht zu halten, grossmäulerisch Säcke voll mit Luft zu verkaufen. Einige Gefährten beschlossen nicht warten zu wollen, vergassen jedoch, dass dies nicht bedeutete unsere revolutionären Träume auf die Seite legen zu müssen. Das Handeln im Hier und Jetzt wird manchmal durch das Greifen nach dem Unmittelbaren eingeschränkt, während das carpe diem nicht bedeuten muss, dass es keine Zukunft gibt. Dass gerade das Erobern des Jetzts der einzige Weg nach einer freien Zukunft ist und dass wir es dafür tun.

Und so wurden die Dinge in unserem Kopf zu einem festen Block gemeisselt. Und wir begannen zu glauben, dass wir den anderen, jenen Menschen die nicht zu unserem Klub gehörten, keine Vorschläge machen durften. Denn wir wollten keine Politiker sein, keine Autoritären. Wir wussten, dass die Selbstorganisation uns wichtig war, wollten andere jedoch, zimperlich wie wir waren, nicht mit unseren Erfahrungen bereichern. Und wir vergassen, dass vielleicht auch noch andere waren, die uns bereichern könnten. Aus lauter Angst etwas zu sein, das wir nicht sein wollten (und sowieso auch nicht sind), errichteten wir Mauern rund um unsere Füsse herum.

Zusätzlich zu den anderen Dogmen kam auch noch jenes hinzu das besagt, dass wir beim Hören von Neuigkeiten über Revolten, nicht zu enthusiastisch sein mussten, denn wir mussten uns alle daran erinnern und sogar bekräftigen, dass dies keine anarchistischen Revolten waren. Wir sind keine Supporters der Massa, warten nicht auf den Moment bis wir endlich mit genug Leuten sind, bevorzugen individuell geteilte Wege und nicht anonyme Kollektivität, bevorzugen das Entwickeln befreiender Ideen, nicht die sich ins Unendliche erstreckende Vagheit, die ein idealer Nährboden für neue Führer ist, aber…Eine grosse Gruppe Menschen ist nicht gezwungenermassen eine Massa und kann genau so gut eine Gruppe Individuen sein. Eine Revolte negativ zu qualifizieren weil es eine Gruppe Menschen betrifft, basiert sich auf Nichts und nochmals Nichts. Ihre Protagonisten jedes Mal aufs Neue auf Abstand mit den anarchistischen Massstäben zu messen, macht den Anarchismus zu einer Nervensäge, einer paralysierenden Meinung und nimmt ihm die Lebendigkeit des Kampfes.

Und schlussendlich hatte auch die Solidarität diesen einen Weg zu begehen: ihr wurde den Stempel des Aktivismus aufgedrückt, anstatt zu versuchen, ihr ihren revolutionären Inhalt zurück zu geben.

 

…hilft dem Wind des Aufstandes uns zu befreien..

Heute sind Dinge am Gange, die etwas tief in uns wach rütteln. In vielen von uns sitzt da noch immer der alte Traum: kämpfen für die Freiheit. Halb nackt aber jeder mit seinem Bündel voll Erfahrungen, versuchen wir über Aufstand und Revolution nachzudenken. Es gibt so einge die sagen, dass uns das alles nichts angeht, dass in Nordafrika Aufruhr herbeigeführt wird, wie im Mittleren Osten. Warum sollten wir uns mit Dingen beschäftigen die sich in anderen Kontinenten vor tun? Um zu beginnen, lasst uns zuerst einmal deutlich machen, dass es sich hierbei nicht einfach um Dinge handelt, sondern um einen Volksaufstand, um Menschen die sich organisieren, die ihren Rücken richten, gegen die Macht und gegen ihre jahrelange Unterdrückung. Wenn wir uns als Anarchisten hierin nicht erkennen können, sollten wir uns besser die Frage stellen, wohin unsere Kampflust sich verflüchtigt hat, ausgetrocknet. Darüber hinaus sind wir Internationalisten. Lasst uns die Grenzen, die der konstant steigende Nationalismus auch in unsere Köpfe gekerbt hat, herausfeilen. Dann kommt noch hinzu, dass diese Aufstände auch für uns, hier und jetzt, einen magischen Charakter haben. Sie haben die Möglichkeit des Aufstandes wachgerüttelt. Diese mutigen Menschen auf der andern Seite des Mittelmeeres und anderen Orten, haben uns geholfen die Mauern unseres Horizonts herunter zu reissen, und zusammen mit uns, viele andere auch. In den Strassen der Stadt wo wir wohnen, findet das Wort Revolution einen ungekannten Wiederklang. Schlussendlich kann niemand tun als ob die Situation dort nicht in direkter Verbindung mit unserer Situation hier steht. Die Politiker und Kapitalisten von überall sind nicht nur die Führer überall und verbinden unsere Situation daher auch mit denjenigen an anderen Orten in der Welt, es ist zum Beispiel auch eine Tatsache, dass die Aufstände in Nord Afrika eine Zeit lang die Tore vom Ford Europa zu stürmen vermochten. Durch das Verschwinden von Ben Ali und Mubarak und der unter Bezwang stehende Macht Khadafis, ist die Autorität, die Europa dabei half ihre himmlischen Tore zu bewachen, verschwunden. Für wie lange weiss man nicht. Lampedusa strömt voll, Berlusconi verteilt Übergangs Visa’s, Frankreich stoppt Züge an den Grenzen, in Paris besetzen Tunesier ein Gebäude, Belgien will schärfere Grenzkontrollen, und so weiter. Die Situation in unseren Ländern verändert sich de facto durch die Aufstände anderswo.

Zur gleichen Zeit brodelt es auch schon eine Weile auf dem europäischen Kontinent. Proteste gegen die Sparmassnahmen, das finale Demontieren des Wohlfahrtsstaates wie wir ihn gekannt haben. Von Portugal über Frankreich, England, Kroatien, Serbien, Albanien bis hin zu Griechenland. Überall in Europa gibt es unzählige Menschen, die all jenes worin man ihnen sagte zu glauben (hart arbeiten, konsumieren und sparen und dann in Pension gehen, verdiente Ruhe), vor ihren Augen in Luft aufgehen sehen. Wir könnten alle möglichen Katastrophen Szenarios voraussehen. Davon ausgehen, dass dieser historische Moment in Exzessen des überall anwesenden Fremdenhasses münden wird. Pogrome, massenhafte Ausschaffungen, was weiss ich. Aber es besteht auch eine Chance, dass jene letzten Aufstände etwas anderem Leben einblasen können. Etwas das weder mit Protektionismus noch mit Rassismus zu tun hat. Besteht die Möglichkeit, dass all diese brodelnden und potenziell explosiven Situationen einander beeinflussen können?

Ein anderes Domszenario ist jenes, welches bereits seit Jahren zur Realität geworden ist: das bauen neuer Gefängnisse und Ausschaffungslagern überall. Das sähen von Kameras überall. Die Ausbreitung der Kontrolle und des Repressionsapparates überall. Das Eindringen der Kontrolltechnologie ins „soziale Leben“. Die Antwort von Staaten auf Aufstände ist deutlich: Repression, auch präventiv. Aber während eines Aufstandes ist so vieles möglich. Das haben die tausenden, in den letzten Monaten, aus dem Gefängnis ausgebrochenen Gefangenen bewiesen. Zugleich ist es während eines Aufstandes besonders einfach, die repressive Infrastruktur des Feindes aus dem Weg zu räumen. Sie experimentieren mit Mitteln, um die Metropolen kontrollieren zu können. Aber was passiert wenn ihr Kameranetzwerk nicht mehr funktioniert? Es besteht keine einzige Metropole wo die Bullen beliebt sind und es gibt auch keine Metropole wovon man sagen kann, dass sie vollständig unter der Kontrolle des Staates steht. Während eines Aufstandes erblühen erneut alte revolutionäre Taten: Taten der Solidarität, Selbstorganisation, Angriffe auf feindliche Strukturen..

 

…und den Inhalt unserer Praxis zurück geben…

Es gab Zeiten, wo man gewisse Worte und Taten nicht von ihrem revolutionären Inhalt scheiden konnte. Es erschien einfach um, mit Hilfe der anarchistischen Ideen, die Welt in Worte zu fassen.

Es waren Zeiten worin die ant-autoritären Ideen und Taten, die auf die Umsetzung dieser Ideen ausgerichtet waren, lebten.

So können Menschen heutzutage die Solidarität mit Aufständen und gefangenen Gefährten als Aktivismus betrachten, während die Solidarität essenziell ist für jeden Aufstand und jede Revolution und somit auch für jedes revolutionäre Projekt. Wenn Aufständische in der einen Stadt, in Solidarität mit der anderen Stadt, auf die Strasse kommen, brauchen wir nicht zu zweifeln. Dies ist ein notwendiger Bestandteil der revolutionären Praxis.

Heutzutage bleiben wir jedoch oft in einer endlosen Beschreibung aller hässlichen Dinge der Welt stecken. Wir sprechen zurecht z.B. über einen Bullenmord aber oftmals kommen wir nicht weiter als die Tatsache, gegen das Gefängnis und die Bullen zu sein. Wir teilen weder die Basis von unserem Willen zu Handeln noch unser Verlangen nach einer Welt ohne Autorität mit anderen Menschen. In der Stadt in der wir wohnen z.B. liebt beinahe niemand die Bullen und das Gefängnis. Zu wiederholen, dass wir gegen das Gefängnis sind, wird uns in diesem Fall nicht viel weiter bringen. Wir haben mehr zu sagen, viel mehr. Sicher jetzt wo sich ein grosser Teil des wahren Gesichtes des Staates an vielen offenbahrt, können wir auch über andere Dinge sprechen. Dinge die die Untergrabung dieser Gesellschaft stimulieren.

 

…in einem Kampf ausgerüstet mit einer revolutionären Perspektive…

Was benötigen wir für einen Aufstand oder eine Revolution? Was müssen wir uns aneignen und welche Aneignung können wir bei anderen stimulieren? Wie können wir revolutionäre Vorstellungen schüren? Wie können wir die anti-autoritären Ideen und Taten zu etwas denkbarem und lebendigem machen? Wie können wir dafür sorgen, dass wir von einer starken Basis aus handeln, eine Basis der Qualität eher dann Quantität. Wie können wir die Konfliktualität ankurbeln und mit unseren Ideen mengen? Wie können wir die Selbstorganisation mit Affinität stimulieren und Solidarität anfachen? Wie können wir die Grenzen hinter uns lassen und Internationalisten werden? Wie steht es mit Terrainwissen? Können wir auch mit anderen Arten des Kampfes als dem spezifischen Kampf experimentieren? Wie kann der spezifische Kampf in Austausch stehen mit Konfliktualitäten die sich ausserhalb dieses spezifischen Terrains entwickeln? Können wir die Momente in denen die Linien Form bekommen stimulieren und entwickeln, die Linien zwischen jenen, die für die Autortät und jenen die dagegen kämpfen?

Ein Projekt mit einer revolutionären Perspektive richtet sich nicht nach einem Sieg, sondern ist ein permanentes Ereignis. Was jedoch nicht sagen will, dass sich die Akteure blindlings ins Gefecht werfen. Nachdenken über das wo, wann und wie kann nicht einfach als „pure Theorie“ abgetan werden.

Die konkrete Einfüllung eines Kampfes mit diesen Perspektiven variiert van Kontext zu Kontext. Die bewusste Anwendung von Mitteln hängt sowohl von der Vorliebe von Gefährten, wie auch vom Kontext, worin sie agieren, ab. Viele haben sich verschiedene Mittel angeeignet und es liegt an uns darüber nachzudenken wie wir diese anwenden wollen.

Wir merken, dass das Wort Revolution durch viele in den Mund genommen wird, während der Inhalt ihrer Revolution uns abschreckt (die Indignees und ihr unzähmbares Rekuperationsvermögen hängt uns zum Hals heraus). Wenn wir über Revolution sprechen, können wir die Ideen die uns dabei inspirieren nicht davon loslösen. Revolution ohne Inhalt ist eine gefährliche Hülle, was jedoch nicht im geringsten sagen will, dass uns das daran hindern wird, uns den heutigen Herausforderungen zu stellen. Und Herausforderung gibt es zu genüge. Sie entfalten sich wie Blumen vor unseren Augen. Wir werden dem Wein kein Wasser beimengen aber das Bewusstsein, dass die Dinge weder schwarz noch weiss sind (es gibt wenige Anarchisten aber viele Menschen die ein Bedürfnis nach Freiheit haben und die genug von diesem elendigen Bestehen haben) befähigt uns zu probieren, zu entdecken. Immerhin haben wir so einiges zu bieten. Jahrelange Erfahrungen in verschiedenen Kämpfen (sei es in der Besetzerbewegung oder in spezifischen Kämpfen wie z.B. gegen die Ausschaffungslager) aber auch in Experimenten mit Mitteln und der Suche nach neuen Möglichkeiten und Einfallswinkeln bei der Entwicklung von Affinität und Ideen,…Dies hat nicht zum Ziel uns selbst in den Himmel zu jubeln. Aber wie kommt es, dass jedes Mal wenn uns Menschen auf der Strasse fragen: „Was können wir tun?“, wir nicht wissen was darauf zu antworten? Wir, die besessen sind durch die Frage was wir tun können, sind nicht in der Lage auf diese Frage einzugehen…

 

Aus tiefsten Verlangen, eine Welt der Freiheit

Apocalyptische perspectieven

Het revolutionaire vraagstuk is een duidelijke breuklijn in het hart van de anarchistische internationale beweging, op sommige plaatsen dieper dan elders. Langs de ene kant is er DE revolutie, de spiegeling van een verre oase, die ons in de woestijn meerdere keren van dorst zal doen omkomen voordat we haar in één of andere materiële vorm zullen bereiken. Deze visie beschouwt revolutie als een evenement om rustig af te wachten, want sowieso niet afhankelijk van ònze actie, maar wel van een ontwaken van de massa’s. Voor dit soort van revolutionairen zijn de omstandigheden nooit helemaal klaar voor de revolutie, en zij beschouwen alle soorten van offensieven die niet « massaal » zijn als het product van een misplaatst ongeduld en avant-gardisme dat zich zowel in woorden als in daden in de plaats stelt van de èchte revolutionaire subjecten, hetgeen niet de revolutionairen zouden zijn…

Langs de andere kant is er het primair anti-revolutionarisme dat de revolutionairen aan de kaak stelt door te stellen dat zij niets anders doen dan afwachten, de revolte temperen, zij die de anarchie hier en nu wensen te leven tegenhouden. De facto, is de revolutie als concreet evenement op een bepaalde manier een mirakel waarop men hoopt maar dat zich nooit voltrekt, een paradijs ver weg.

Spijtig genoeg, gezien ons tijdperk het eist, worden er langs alle kanten apocalyptische, of zelfs chiliastische, perspectieven ontwikkeld, en in tegenstelling tot het verre verleden bevinden deze perspectieven zich niet enkel meer in de mystieke, samenzweerderige rangen of in de schoot van het religieuze fanatisme. Vandaag achtervolgt de vraag van « het einde van de wereld » de discussies op een min of meer serieuze manier. Het einde van de wereld in 2012, het laatste oordeel, de terugkeer van de heilsprofeet, het derde oog en andere mysticireligieuze onzin wedijveren op het eschatologische podium met het beangstigende perspectief van een nucleaire holocaust of een totale wereld- of burgeroorlog. Maar ergens op het podium wandelt er het idee rond over een systeem dat uit zichzelf in elkaar zal storten, onder het gewicht van haar misbruiken. De onvermijdelijke ineenstorting van het kapitalisme van de in de aanvang van de 21ste eeuw opnieuw opgelapte marxisten en hun economische, sociale en ecologische « crisissen ». Een hypothetische ineenstorting die evenzeer vergezeld wordt van hoop als van vrees. Natuurlijk, deze hypothese lijkt me maar weinig serieus, gezien het kapitalisme doorheen haar geschiedenis vooruit gaat van crisis doorheen crisis, telkens opnieuw versterkt, hervorming na hervorming.

Deze visie op de revolutie die zich helemaal op zichzelf in werking zet, zonder ons, zonder mij en op een manier ook onder de impuls van de zelfdestructieve oude wereld, biedt enkel het wachten aan als onmiddellijk perspectief. Het projecteren van al zijn verlangens naar een onafwendbare toekomst stelt ons echt makkelijker in staat om het bestaande te accepteren. En als het geloof van Marx in de onvermijdelijkheid van het communisme hem, en zijn volgelingen, ertoe bracht om de industrialisatie en de kapitalistische uitbuiting als noodzakelijke etappes te beschouwen voor de communistische intrede, eindigt de ideologie van het onvermijdelijke ineenstorten noodzakelijkerwijs met het goedpraten van langs de ene kant een praxis die enkel gedragen wordt door « de sociale zelfverdediging » als antwoord aan de vijand, en langs de andere kant, het ontvluchten van deze realiteit waar we dagelijks op een heel concrete manier tegenover komen te staan.

Uiteraard, deze visie op een oude wereld die zou instorten onder zijn eigen gewicht maakt de opstandige noodzakelijkheid overbodig, plaatsruimend voor niets dan afwachting, defensie. Op de ene plek wordt dit dan, om het met een modieuze term te zeggen, « sociale zelfverdediging » (kraakpanden, levensstijlen, gemeenschap, overleven…), elders zal men al zijn kracht gebruiken, dankzij de ecologische miserie, om op een reactionaire manier de « planeet » te preserveren om zo terug te keren naar een voorafgaande toestand (maar dewelke?), en nog elders zal men zich toeleggen op de verdediging van de « inheemse volkeren » of de antirepressie die uitsluitend door de vijand geconditioneerd wordt etc. Er is in ieder geval geen enkele nood aan de aanval op de statelijke, noch op de kapitalistische structuren en de overheersingmechanismen die de menselijke verhoudingen bepalen, aangezien deze zich toch wijden aan de ineenstorting, als bij toverslag.

In de diepte interesseren deze extreem spitse debatten die zich afspelen tussen de partizanen van de onafwendbare ineenstorting van het systeem me niet echt, of het nu om “communisateurs”1 of anarchisten gaat. Het is te zeggen, wat er ook de conclusie van is, mijn visie op de dingen zal niet omgewenteld worden. Als het kapitalisme zich echt op zichzelf moet ineenstorten, dan doet dat nog niets af aan het feit dat ik dit evenement op geen enkele manier geduldig wil afwachten, voortgaan met het lijden van dit miserabel middelmatige leven dat dit in afwachting op me reeds aanbiedt.

Ik ben een anarchist en een revolutionair, maar ik denk nochtans niet dat DE revolutie plaats zal vinden, niet vandaag noch morgen. Echter, ik streef naar de revolutie, het is te zeggen ik streef ernaar mijn handelingen en mijn gedachten te richten op een totale omwenteling van deze wereld, en een volledige breuk met het vroegere. Het is op die manier dat ik revolutionair ben, niet uit opportunisme, en er bestaat volgens mijn niets erger dan zij die zeggen dat ze revolutionair zijn omdat ze geanimeerd worden door het geloof dat ze de revolutie als concreet evenement nog zullen meemaken. Neen, revolutionair zijn betekent dat men in zijn concrete activiteit en zijn theoretische productie de zaden van een andere wereld legt, net als de middelen en de doelen onafscheidelijk zijn.

Het valt niet te ontkennen dat ons leven vandaag, net als de toestand waarin de wereld zich bevindt, vreselijk zijn. De facto lijkt het me, gezien de toestand waarin de mensheid zich vandaag bevindt, quasi ondenkbaar om zich een radicale omwenteling van deze wereld voor te stellen die zich van alle autoriteit zou ontdoen. We kunnen zelfs bevestigen dat het perspectief van een veralgemeende opstand vandaag evenveel hoop als vrees bevat. In een wereld waar de ranzige ideologieën als racisme, de identitaire en communitaire mechanismen, de dorst naar macht, de geldzucht, het consumentisme, de economische of sociale concurrentie of nog het seksisme elkaar verdringen, zal de opstand, naast hetgeen waarin we ons kunnen herkennen en aan deelnemen, ook een hoop tragische en onverdraaglijke gebeurtenissen met zich meebrengen

Dit gezegd zijnde, lijkt het me nog ongepaster en verder van de realiteit verwijderd om te praten over een anarchistische revolutie. Want dat zou betekenen dat men zich een revolutie van miljoenen anarchisten moet inbeelden, op een manier de oude droom van de CNT, die, als hij als droom respectabel is toch een hersenschimmige pretext is voor de inertie en het afwachten. Als er een revolutie of opstand komt, zullen de anarchisten geen toeschouwers blijven, uiteraard. De zaken naar een kritiek op de autoriteit als dusdanig trekken, de slechte reflexen die aan deze wereld toebehoren proberen weg te duwen zonder een flikkenrol te spelen, maar zichzelf ook plezier doen door de wraakverlangens te stillen die zich slag na slag opgestapeld hebben, net zozeer tegen de staat en de economie als tegen de samenleving.

Revolutionair zijn is dus, volgens mij, gedreven worden door een spanning naar iets anders. Een spanning die zich verwezenlijkt hier en nu, elke dag, in de kleinste oorlogsdaad. Het is de projectmatige vervlechting in elke daad, zelfs de onbeduidende, die door de revolutionair gedragen wordt, die toegewijd is aan de identificatie van deze wereld als zijnde een obstakel voor het revolutionair project. Op een manier is het ook een verantwoordelijkheid, want het lijkt me onvermijdelijk dat je jezelf op spel zet in de strijd. Zichzelf openlijk revolutionair noemen draagt zijn aandeel van risico’s en gevaren mee. We kunnen niet verwachten dat de samenleving, wanneer we ons ermee in openlijk conflict verklaren zich op haar beurt niet op ons zal wreken, doorheen de staat of niet. Net als in het leven zijn deze zaken ook veel subtieler dan zo’n simplistisch schema.

Deze wereld, die verre van zichzelf aan het vernietigen is, moet dus vernietigd worden, dit is het œuvre van de revolutionair, dit kan niet ontweken worden. Zoals die andere dat zei, als de vraag niet draait om het “voeren van revolutie”, dan zal het gaan over “hoe haar te ontwijken?”.

 

Nog een revolutionair zonder revolutie.


1Verwijzing naar de ultra-linkse tendens voor de communisation (waar ook een gelijknamig tijdschrift over bestond). Het probleem dat deze tendens zich stelt is ondermeer hoe af te stappen van de klassieke marxistische idee van een “overgangsperiode” tussen het huidige sociaal-economische bestel en het communisme. De communisation is dan het proces, of eerder, de maatschappelijke beweging die onmiddellijk het communisme verwezenlijkt.

 

Om onze dromen te volgen

Ieder van ons heeft een speciale fysionomie en bekwaamheden die hem onderscheiden van zijn strijdkameraden. We zijn dan ook niet verbaasd om te zien dat de revolutionairen erg verdeeld zijn over de richting van de inspanning. Maar we kennen aan niemand het recht toe om te zeggen: “Alleen onze propaganda is de juiste; buiten de onze is er geen heil.” Dat is een oud restje van autoritarisme, ontstaan om een ware of valse reden, die de libertairen niet mogen verdragen.

Emile Henry

 

Als we rondom ons kijken, kunnen we alleen maar een opwindende vervoering van vreugde voelen bij het zien dat velen revolteren tegen de huidige stand van zaken. Degene die, moe om geknield de gewoonlijke dagelijkse onderdrukking te blijven slikken, probeert om in opstand te komen tegen de overheersing, kan bij ons alleen maar iets opwekken waarmee we onze verlangens innig verbonden voelen. Nu de zo verwachte vuren van revolte uitbreiden, zouden die ons niet onvoorbereid mogen aantreffen. We zouden in staat moeten zijn om die te analyseren met alles wat dat betekent, de moed en de trots van de opstandelingen maar ook hun limieten vatten en zowel aan te dringen op wat ons bijeenbrengt als op wat ons onderscheidt. Vertrekkende vanuit onze verlangens kunnen we een hoe, een waar en een wanneer uitwerken van er te zijn, terwijl we onze aspiraties dichtbij ons houden. De gelegenheid scheppen om revolutionaire perspectieven te ontwikkelen, erover te discussiëren, onszelf de tijd en ruimte te geven om dat te doen, brengt ons zeker naar een groei en verrijking. Het weten interpreteren van de gebeurtenissen, net zoals het weten om er voorbij te gaan, zich het probleem stellen van hoe niet alles op korte tijd uitgeput raakt, of hoe we van een opstand niet overgaan tot een burgeroorlog, kan de poorten openen voor het verbeelden van onze interventie in de bestaande strijden die zich verbreiden. Het zal nodig zijn om in staat te zijn om in tijd en ruimte deze momenten van intense, maar vluchtige breuk te laten voortduren. Vermijden, zoals vaak gebeurt, dat een strijd omkaderd blijft in haar eigen specificiteit; duidelijk maken hoe een deelstrijd een gelegenheid is die kan dienen als stormram voor de subversie van het bestaande en hoe we alleen door niet te blijven steken in de eisen toch kunnen neigen naar ons doel.

Het lijkt ons dus gepast om ons te buigen over hoe sommige anarchisten zich tot vandaag de dag tegenover dit alles opgesteld hebben, niet om te verzanden in een kritiek, maar de mogelijkheid voor reflectie en overstijging van de limieten te creëren.

De voortdurende en alsmaar massalere ontscheping van mannen en vrouwen die vluchten voor de ellende of brutale repressie in hun landen, gaat zich “inschuiven” in een Westers evenwicht dat reeds wankel is. De revoluties waarvan ze de scheppers geweest zijn, zou ons ertoe kunnen brengen om te denken dat ze op één of andere manier hun “oeuvre van vernieuwing” hier in Europa zouden meebrengen, waarmee we hen een rol van “revolutionair subject” zouden toekennen, een rol die ze naar alle waarschijnlijkheid niet zelf ervaren noch verlangen. De gefrustreerde angsten om de revolutie te voltrekken die al altijd begeerd wordt, maken dat er complexe redeneringen en onbegrijpelijke theorieën ontworpen worden op de kap van mensen die, reeds uitgeput door een niet makkelijk leven, waarschijnlijk op zoek zijn naar een vrede die ze hier niet kunnen vinden. Zeker, ze zijn niet alleen op zoek naar vrede en daarom moeten we in het achterhoofd houden dat dit alsmaar acutere perspectieven van sociaal conflict zou kunnen openen, maar het is niet gezegd dat dit zal gebeuren zoals wij dat zouden wensen.

Er werd op alle manieren gezocht om een communicatiekanaal te vinden met deze mensen. Er werd op alle mogelijke manieren geprobeerd om zich op te stellen als geprivilegieerde gesprekspartners door in het merendeel van de gevallen te handelen naar een steriele assistentialistische liefdadigheid. Er werd geloofd dat de methode van zelforganisatie verspreid werd, maar het kwam er op neer om “beheerders” te worden van hun noden en zich zo illusies te maken over het opbouwen van verhoudingen die hen dichter brachten bij het antiautoritarisme. Men zoekt in hen een radicaliteit die ontsnapt aan dit moeras van immobilisme dat veroorzaakt wordt door het relatieve welzijn waarin we, ondanks onszelf, ondergedompeld zitten.

De kinderen van de revoluties in de Magreb kwamen in opstand voor redenen die ze als van hen aanvoelen, om de dictaturen omver te werpen die hen al decennialang onderdrukken. Ze hebben gevangenissen en rechtbanken, commissariaten en kazernes vernietigd. Hier zullen ze moeilijk strijden voor de omverwerping van het democratische regime, aangezien ze daar geen weet van hebben, ze zullen makkelijker vechten, zoals reeds meerdere malen gebeurd is, voor een minimum aan erkenning en aan rechten. Iets wat volledig begrijpbaar is.

Aan de marges van het democratische Westen, waar een luchtspiegeling van relatieve welstand miljoenen mensen opstapelt in buitenwijken, vonden er de laatste jaren alsmaar regelmatiger rellen plaats. De jongeren van de buitenwijken van de grote steden beslissen om uiting te geven aan hun woede, de diffuse wanorde verspreidt zich, de grote winkelketens worden geplunderd, er wordt gereld met de flikken, er wordt vernield, brandgesticht, er wordt lenig bewogen in kleine groepjes die alles wat ze op hun weg tegenkomen in vuur en vlam zetten. Maar wat willen ze? Ze strijden zeker niet voor een een revolutie die de bestaande sociale verhoudingen, gebaseerd op hiërarchie en uitsluiting (hun dagelijkse leven voedt zich ook met hiërarchieën en rollen) zou subverteren. Hun woede is een uitdrukking van ontkende mogelijkheden, van de frustratie om te voelen dat alle mogelijke insluiting ontoegankelijk is. Hun woede komt voort uit het feit om van zo dichtbij een welzijn te hebben zien schitteren waar ze systematisch van weggehouden worden.

Degene die geboren is onder de foute sterrenhemel, die niet uit het toegelatene mogen gaan, die slechts anonieme nummers zijn, die niet tellen, die van generatie op generatie niet naar voren komen, beslissen om hun woede te uiten en worden oncontroleerbaar.

We hebben hen zien ‘spelen’, en het feit dat er niet gegrapt werd fascineerde ons. We hebben deel willen nemen aan hun brandstichtingsfeestjes en verder willen gaan, maar we weten dat we buitenstaanders, indringers zouden zijn. Ons uniformeren aan iemand die ver van ons staat, met hun eigen culturele en religieuze banden is absurd, zoals het absurd zou zijn om hen perspectieven toe te schrijven die de onze zijn.

De strijden die we de laatste tijd tegenkomen als antwoord op een sociale Staat die problemen heeft om ongecontesteerd overeind te blijven, hebben een partieel karakter en neigen tot behouden. Je ziet vele bewegingen die hun arbeidsplaats willen behouden, andere die hun recht op onderwijs willen behouden, velen hun recht op toekomst, die hun pensioen willen gevrijwaard zien, die een ruimte willen behouden die niet te snel doodt of een territorium dat niet te snel verwoest wordt. Verschillende sociale categorieën en groeperingen met een territoriaal karakter beginnen alsmaar aandringender lawaai te maken. Uitgeputte arbeiders die de fabrieken bezetten en op straat komen, wat timider in vergelijking met de studenten die zich dagen van oproer cadeau doen die maar moeilijk terug in de normaliteit te dringen lijken, ‘opgejutte’ bewoners die zich hartstochtelijk verzetten tegen afval en stortplaatsen, anderen tegen de bouw van autostrades en spoorwegen.

Het democratische regime functioneert niet zoals het zou moeten, het slaagt er niet in om dat minimum aan welzijn te verzekeren waar men aan gewend was. De angst om iets te verliezen zet allen, ook de meest trouwe burgers, aan om op straat te komen, om zich te verontwaardigen en op de daken te kruipen.

In deze tijden van voortdurende vernieuwing moet alles aangepast worden, moet alles verjongd worden. De huidige staat van de maatschappij heeft ons gebracht tot een zodanig verspreid en machtig niveau van vervreemding dat het de individuen tot in de meest diepliggende lagen van de eigen geest besmet heeft. Onze aspiraties naar een ander leven zijn onverstaanbaar en absurd geworden, waardoor ze ons geen makkelijke communicatie meer toelaten. De anarchisten zijn er niet in geslaagd om de tijden bij te houden, denken sommigen.

Anderen beginnen daarentegen te denken dat de antiautoritaire kritiek té ver is gegaan, dat er in het volgen van een eigen theoretisch-praktische parcours gelopen werd, terwijl er moest gewandeld worden om zo aan de massa’s toe te laten achter ons aan te komen. Eenvoudig, dynamisch, bereikbaar om zo aan erkenning en geloofwaardigheid te winnen, ziedaar hoe de anarchisten zich hebben laten inpalmen door de logica van het kwantitatieve. Té velen hebben gedacht dat een interventie in de sociale bewegingen meer zou moeten lijken op een campagne opgesloten in een specificiteit die makkelijk een massaal begrip en een tastbare overwinning nabijer brengt. Té velen hebben zich gecamoufleerd in een poging om bescheidener te zijn, om van anarchistische inhoud over te gaan tot iets beperkter en gerichter naargelang de gelegenheden. Door een beetje toegeeflijker te zijn, ten koste van een detail dat té vurig is, die ze dan vervolgens altijd kunnen vertegenwoordigen, zijn er die gedacht hebben dat ze de deel- en revendicatieve strijden konden leiden of integreren. Alsmaar vaker hoor je zeggen dat we nu met velen kunnen doen wat we met weinigen niet konden. Gelovende het zwijgen te kunnen opleggen aan wat onderscheidt en aan de meer diepliggende aspiraties, hebben ze zichzelf ervan overtuigd dat de vorm volstaat om de radicaliteit van de strijd te uiten en dat het aantal de strijd sterker maakt, in de illusie van de consensus. Er moeten dingen gebeuren, er moeten veel te veel dingen gebeuren – zo wordt er gezegd – om zich te verliezen in zinloze discussies die alleen maar scheidingen scheppen. Nu is het tijd om bijeen te zijn.

De affiniteit, die in een tijd beschouwd werd als fundamenteel om het handelen te organiseren, wordt nu beschouwd als merkwaardig klatergoud, als iets dat lijkt op een extravagant siervoorwerp, mooi om te zien, maar van weinig nut. Nu de wateren eindelijk beginnen te borrelen en een mogelijke storm aankondigen, wordt alles wat een hinderpaal zou kunnen zijn voor de overeenkomst met het revolutionaire subject van dienst opzij gelegd en op zolder weggeborgen. Je kan zeker geen ruimte vinden waar de assemblee een gemeenschappelijke taal en een delen van intenties nastreeft. Daar, waar de meerderheid alle redenen heeft en het individu geen. Waar de consensus onherstelbaar botst met het verlangen.

Het individualisme is synoniem geworden voor eenzaamheid, voor autisme dat te wijten valt aan het onvermogen om zich te doen verstaan of zelfs alleen maar te laten horen. Onze kritiek is teken van geslotenheid geworden, uitdrukking van een extreme onverzettelijkheid tegenover degenen die we daarentegen hadden moeten verdragen, of leren te veroveren.

Voor ons is het zich beschouwen als enigen niet onverzoenbaar met het samen strijden, gedreven door de vrijheid. Wij willen niet wachten tot de massa’s “bewust gemaakt zijn”, en nog minder willen we wachten op toelating en op vooropgestelde momenten om te bekritiseren en te ageren. Wanneer we ons associëren met een ander kan dan voor ons niet bepaald worden door opportunisme, eenzaamheid of gevoel van onmacht, maar door een werkelijk overeenkomen van methode en doel. Anders geven we er de voorkeur aan onze weg voort te zetten, die misschien langer en eenzamer is, maar die werkelijk voor onze revolutie is.

We willen de inhoud niet van de praktijk scheiden, omdat we vinden dat de methode uitdrukking moet zijn van de wereld die we verlangen, een wereld zonder autoriteit, zonder delegatie, zonder toegevingen, zonder compromissen, maar een wereld van individuen die zichzelf kunnen en willen bepalen. We zijn ervan overtuigd dat we er geen nood aan hebben om wie dan ook te sturen of te gidsen, we voelen ons boodschappers van onze stemmen, promotors van onze spanningen die moeilijk te verzoenen vallen met akkoorden, niet begaan met het aantal en de consensus, die graag denken dat we degenen die dichtbij ons staan omdat ze de wil hebben om dit bestaande te subverteren al gaande zullen tegenkomen. Niet door er obsessief naar op zoek te gaan, maar door een wederzijdse beweging zullen we elkaar ontmoeten om ertoe te komen onze dromen aan te raken. We willen in staat zijn om slagen toe te brengen aan het systeem van overheersing, bezorgd om het ontdekken van haar zenuwpunt, gebruik makende van elke kwetsbaarheid en onderbreken van haar normale beheer. We kunnen inderdaad profiteren van de vonken, we kunnen ons ook warmen rondom het vreugdevuur, maar we willen meer en dat zal er alleen maar komen als we ons inspannen om dat te doen gebeuren.

 

Twee individuen erbuiten

Een moeilijk onderwerp

Een moeilijk onderwerp, ja. Een onderwerp dat snel een polemiek kan worden, al dan niet steriel. Maar dat is niet het doel. Het gaat evenmin over een existentiële vraagstelling, over een “Wie zijn wij”, over een “Wie ben ik”. Ik wil discussiëren over de anarchistische beweging zoals ik ze ken, dat wil zeggen de beweging van vandaag, hoewel ik me kan inbeelden dat deze mechanismes zich voordoen buiten onze tijd of zelfs buiten de anarchistische beweging. Er vallen veel dingen te zeggen, maar ik zou graag specifiek praten over de verhoudingen die de relaties binnen deze beweging sturen, tussen de ene en de andere, doorheen linguïstische en geografische barrières. Ik wil evenwel niet dat deze enkele lijnen worden opgevat voor wat ze niet zijn, waar ik hier over praat, gaat ook over mij, en de mechanismes die ik hier beschrijf, heb ik zelf geproduceerd en gereproduceerd. De goesting om deze lijnen te schrijven komt voort uit talrijke discussies met anarchisten van hier en elders, in verschillende contexten, die zelf ook de noodzakelijkheid voelen om deze vragen te stellen tussen ons, om er openlijk over te discussiëren in stukjes en beetjes. Natuurlijk pretendeer ik niet om deze kameraden te vertegenwoordigen, omdat ik in eerste plaats van mezelf vertrek.

Deze tekst is storend, ze geneert mij zelf. Ik hoop niettemin dat, door te discussiëren over taboes, dat ze niet zelf een taboe wordt, of materiaal tot zelfgeseling. Ik hoop ook dat, ter gelegenheid van deze bijeenkomsten rondom het subversieve boek, deze bijdrage de gelegenheid zal zijn om na te denken over deze vragen, die volgens mij onvermijdbaar zijn aan de ontwikkeling van onze ideeën et aan de ontmoeting met andere ongehoorzamen.

Ten eerste we moeten ons niets wijs maken, de anarchistische beweging is wel degelijk een beweging, of een mouvance, dat maakt niet uit. We kunnen wel, voor velen onder ons, de zaak van de individualiteit en de eigenheid van elk individu centraal stellen, dat zal nooit verhinderen dat dit geheel groter dan het individu zich inwisselt voor de individuele wil en voor de verlangens eigen aan eenieder binnen deze beweging. In realiteit heeft iedere sociale groep zijn grenzen, het is de conditie sine qua non van zijn ontwikkeling, van zijn eigen afbakening. Om ons te definiëren moeten we ook kijken naar wat we niet zijn en naar wat ons samen brengt. Vertrekkend van daar, wordt de originaliteit van de individuen en affiniteitsgroepen die zich uitdrukken, vaak genormaliseerd om te passen in een gietvorm, een soort van gemeenschappelijk bindmiddel. Wanneer de normalisatie niet werkt, zoals in elke sociale groep, blijft er enkel misprijzen of verbanning.

Op die manier komen automatismen tot stand en worden ze niet meer in vraag gesteld. “Het is nu eenmaal zo”, “het is niet het moment”, “het is altijd zo gegaan”. Deze mechanismes geven binnen de beweging, de macht aan een groep van bewakers van de heilige overbrenging, bewaarders van de juiste waarheid en in het algemeen weinig genegen aan het in vraag stellen ondanks de beschouwingen die in het leven opgemaakt moeten worden uit decennia van duidelijke mislukkingen. Ik zei wel degelijk macht, en ik zeg ook gedwongen centralisatie. Het werken volgens affiniteit, die ik onderschrijf, heeft het nadeel wanneer slecht gedoseerd, van te veel macht te geven aan de individuen die het meeste relaties bezitten, en soms een zekere ouderdom bezitten. Men moet via hen, hem of haar gaan om zich te organiseren, om andere anarchisten te ontmoeten, om alles.

We weten dat de macht op hetzelfde moment angstaanjagend en opwindend is, ze trekt aan en ze stoot af tegelijkertijd. Ik heb het niet over de institutionele macht maar over de relaties van macht tussen individuen. Wanneer men begint een beetje macht te verwerven, wil men altijd meer. Het schema is simpel en fundamenteel, en ze kan slechts in werking treden bij anarchisten wantrouwig voor deze zaken, vanaf het moment dat bewondering en “charisma” op het toneel verschijnen. Men gaat de activiteit van anarchisten in dit of dat land bewonderen om kwantitatieve of gewoonweg exotische redenen, men gaat zich opsluiten in het nastreven van modellen: “doen zoals in Griekenland” enz. Men gaat de taal en het charisma van die of deze kameraad bewonderen (jullie die deze tekst lezen kennen allemaal een kameraad die meer sociale waarde heeft binnen de beweging dan anderen). Daar worden relaties van macht geboren en worden klassen gecreëerd binnen de beweging, door middel van de retoriek, de charme, de politiek. Uiteindelijk wordt de beweging een plek bij voorkeur voor personen die exact weten wat ze willen maar die zich de artificiële dialoog, de invraagstelling en de discussie aanwenden om een opening voor te wenden die er in realiteit niet is, omdat eigenlijk “het zo is, en dat is alles”.

In de feiten creëren deze mechanismes leiders, die uitlopen op een lokale centralisatie van de activiteiten van de beweging. Diegene die zich afwendt van deze centraliteit moet op één of andere manier antwoorden op zijn eigen afwezigheid en een aannemelijke rechtvaardiging voorleggen voor zijn niet-akkoord zijn of zijn afwezigheid op die of deze hoeksteen van de beweging, of het nu gaat om een idee, of een plaats (een assemblee, een lokaal, een specifieke strijd). De vrijwillige niet-participatie aan deze heilige collectieve momenten moet gerechtvaardigd worden, en niet omgekeerd, op straffe van “arrogantie”. Aldus, zonder nood aan een erkende autoriteit, wordt de veelvoud aan ideeën van individuen beperkt tot de dimensies van een of meerdere “charismatische” kameraden. Zo’n mechanismes zijn onlosmakelijk verbonden met de verbanning; tegen diegenen die niet daar zijn waar men moet zijn, in die strijd, in die plaats, of die assemblee, die dus noodzakelijkerwijs “nietsnutten”, “je-m’en-foutisten”, “kleinburgers” enzovoort zijn. Zo werkt een vorm van controle niet ver verwijderd van die van het gerecht. Mechanismes die zich hebben voorgedaan in de recente strijden een beetje overal, van Val Susa tot de strijd van de Tunesische sans-papiers in Parijs of de strijd tegen de gevangenissen voor buitenlanders doorheen Europa, of ook de “internationale solidariteit” wanneer ze een chantage wordt.

Ik heb niet weinig kameraden gezien die loslieten, of simpelweg opgaven door deze mechanismes. Ik zie bij hen een zeker gebrek aan volharding, aan wil om zelf te creëren wat we willen zien leven, soms verwijt ik het hen. Maar ik kan niet helemaal hen verwijten om de armen te laten hangen, omdat vaak de kracht en de volharding aan de kant staan van diegenen die de macht bezitten, want sowieso hebben we dat nodig om het te verkrijgen en te onderhouden.

Eerlijk gezegd denk ik niet dat ik overdrijf als ik zeg dat ik hier praat over zaken die wij allemaal kennen binnen de beweging; de rollen, de vervloekte rollen. Op een of ander moment hebben we ons allemaal teruggevonden, opgesloten in rollen in onze groepen. De handige, de schrijver, de netwerker, de technieker, de theoreticus, de dwaas, de intelligente, de lay-out’er, de plakker, de tagger, de kamikaze, de paranoïde, de timide, de afwezige, de radikaal, de gematigde, de creatieveling, allen met een zeker mate van professionalisering. Wat er toe doet, is ermee te breken.

Ik wil niet de verschillen van eenieder ontkennen of afvlakken, elk individu wordt gedreven door verschillende tendenties, passies en smaken, maar één ding is zeker, men moet niet het monopolie van de gerespecteerde kenmerken overlaten aan één enkel of enkele individuen in een groep, want dat is de meeste zekere weg om een leider te creëren, soms zelfs zonder de instemming van die persoon. We weten het, we hebben het al gezegd en duizend keer herhaald, er zijn enkel meesters omdat er slaven zijn om hen te gehoorzamen.

We moeten dus wantrouwig zijn binnen groepen, zowel als in de relaties tussen groepen, tegenover alles dat toelaat dat “prestige” of “verdienste” plaats inneemt. De oudsten zijn niet het meest respectabel, de gevangenis maakt kameraden niet interessanter, de kwaliteit van een kameraad is niet meetbaar volgens het aantal gebroken ramen… Ze is ook niet anders meetbaar. Het prestige is de hiërarchie, en de hiërarchie is macht. Men moet geen schrik hebben om zijn vrees en zijn twijfels te uiten, men moet zich niet laten imponeren door dogma’s. Het is niet omdat een kameraad beter is in het uiten van zijn zekerheden dan een andere in het uiten van zijn twijfels dat die eerste de waarheid aan zijn kant heeft, allereerst omdat de waarheid niet bestaat, maar ook omdat de retoriek enkel voor diegene die ze beheerst de capaciteit om te overhalen en niet te overtuigen is.

Zij die het meer gewoon zijn om hun posities uiteen te zetten, en ik reken mezelf daar ook toe, hebben dus een verantwoordelijkheid als ze niet op zoek zijn naar een machtsgreep. Binnen de anarchistische beweging moeten de mechanismes van de intellectuele autoriteit bevochten worden zowel door diegenen die in staat zijn om ze te produceren als door diegenen die eerder in de positie zijn om ze te reproduceren.

 

Een anarchist zonder de gewoonte om zich te deconstrueren

Een moeilijk onderwerp, ja. Een onderwerp dat snel een polemiek kan worden, al dan niet steriel. Maar dat is niet het doel. Het gaat evenmin over een existentiële vraagstelling, over een “Wie zijn wij”, over een “Wie ben ik”. Ik wil discussiëren over de anarchistische beweging zoals ik ze ken, dat wil zeggen de beweging van vandaag, hoewel ik me kan inbeelden dat deze mechanismes zich voordoen buiten onze tijd of zelfs buiten de anarchistische beweging. Er vallen veel dingen te zeggen, maar ik zou graag specifiek praten over de verhoudingen die de relaties binnen deze beweging sturen, tussen de ene en de andere, doorheen linguïstische en geografische barrières. Ik wil evenwel niet dat deze enkele lijnen worden opgevat voor wat ze niet zijn, waar ik hier over praat, gaat ook over mij, en de mechanismes die ik hier beschrijf, heb ik zelf geproduceerd en gereproduceerd. De goesting om deze lijnen te schrijven komt voort uit talrijke discussies met anarchisten van hier en elders, in verschillende contexten, die zelf ook de noodzakelijkheid voelen om deze vragen te stellen tussen ons, om er openlijk over te discussiëren in stukjes en beetjes. Natuurlijk pretendeer ik niet om deze kameraden te vertegenwoordigen, omdat ik in eerste plaats van mezelf vertrek.

Deze tekst is storend, ze geneert mij zelf. Ik hoop niettemin dat, door te discussiëren over taboes, dat ze niet zelf een taboe wordt, of materiaal tot zelfgeseling. Ik hoop ook dat, ter gelegenheid van deze bijeenkomsten rondom het subversieve boek, deze bijdrage de gelegenheid zal zijn om na te denken over deze vragen, die volgens mij onvermijdbaar zijn aan de ontwikkeling van onze ideeën et aan de ontmoeting met andere ongehoorzamen.

 

Ten eerste we moeten ons niets wijs maken, de anarchistische beweging is wel degelijk een beweging, of een mouvance, dat maakt niet uit. We kunnen wel, voor velen onder ons, de zaak van de individualiteit en de eigenheid van elk individu centraal stellen, dat zal nooit verhinderen dat dit geheel groter dan het individu zich inwisselt voor de individuele wil en voor de verlangens eigen aan eenieder binnen deze beweging. In realiteit heeft iedere sociale groep zijn grenzen, het is de conditie sine qua non van zijn ontwikkeling, van zijn eigen afbakening. Om ons te definiëren moeten we ook kijken naar wat we niet zijn en naar wat ons samen brengt. Vertrekkend van daar, wordt de originaliteit van de individuen en affiniteitsgroepen die zich uitdrukken, vaak genormaliseerd om te passen in een gietvorm, een soort van gemeenschappelijk bindmiddel. Wanneer de normalisatie niet werkt, zoals in elke sociale groep, blijft er enkel misprijzen of verbanning.

 

Op die manier komen automatismen tot stand en worden ze niet meer in vraag gesteld. “Het is nu eenmaal zo”, “het is niet het moment”, “het is altijd zo gegaan”. Deze mechanismes geven binnen de beweging, de macht aan een groep van bewakers van de heilige overbrenging, bewaarders van de juiste waarheid en in het algemeen weinig genegen aan het in vraag stellen ondanks de beschouwingen die in het leven opgemaakt moeten worden uit decennia van duidelijke mislukkingen. Ik zei wel degelijk macht, en ik zeg ook gedwongen centralisatie. Het werken volgens affiniteit, die ik onderschrijf, heeft het nadeel wanneer slecht gedoseerd, van te veel macht te geven aan de individuen die het meeste relaties bezitten, en soms een zekere ouderdom bezitten. Men moet via hen, hem of haar gaan om zich te organiseren, om andere anarchisten te ontmoeten, om alles.

We weten dat de macht op hetzelfde moment angstaanjagend en opwindend is, ze trekt aan en ze stoot af tegelijkertijd. Ik heb het niet over de institutionele macht maar over de relaties van macht tussen individuen. Wanneer men begint een beetje macht te verwerven, wil men altijd meer. Het schema is simpel en fundamenteel, en ze kan slechts in werking treden bij anarchisten wantrouwig voor deze zaken, vanaf het moment dat bewondering en “charisma” op het toneel verschijnen. Men gaat de activiteit van anarchisten in dit of dat land bewonderen om kwantitatieve of gewoonweg exotische redenen, men gaat zich opsluiten in het nastreven van modellen: “doen zoals in Griekenland” enz. Men gaat de taal en het charisma van die of deze kameraad bewonderen (jullie die deze tekst lezen kennen allemaal een kameraad die meer sociale waarde heeft binnen de beweging dan anderen). Daar worden relaties van macht geboren en worden klassen gecreëerd binnen de beweging, door middel van de retoriek, de charme, de politiek. Uiteindelijk wordt de beweging een plek bij voorkeur voor personen die exact weten wat ze willen maar die zich de artificiële dialoog, de invraagstelling en de discussie aanwenden om een opening voor te wenden die er in realiteit niet is, omdat eigenlijk “het zo is, en dat is alles”.

 

In de feiten creëren deze mechanismes leiders, die uitlopen op een lokale centralisatie van de activiteiten van de beweging. Diegene die zich afwendt van deze centraliteit moet op één of andere manier antwoorden op zijn eigen afwezigheid en een aannemelijke rechtvaardiging voorleggen voor zijn niet-akkoord zijn of zijn afwezigheid op die of deze hoeksteen van de beweging, of het nu gaat om een idee, of een plaats (een assemblee, een lokaal, een specifieke strijd). De vrijwillige niet-participatie aan deze heilige collectieve momenten moet gerechtvaardigd worden, en niet omgekeerd, op straffe van “arrogantie”. Aldus, zonder nood aan een erkende autoriteit, wordt de veelvoud aan ideeën van individuen beperkt tot de dimensies van een of meerdere “charismatische” kameraden. Zo’n mechanismes zijn onlosmakelijk verbonden met de verbanning; tegen diegenen die niet daar zijn waar men moet zijn, in die strijd, in die plaats, of die assemblee, die dus noodzakelijkerwijs “nietsnutten”, “je-m’en-foutisten”, “kleinburgers” enzovoort zijn. Zo werkt een vorm van controle niet ver verwijderd van die van het gerecht. Mechanismes die zich hebben voorgedaan in de recente strijden een beetje overal, van Val Susa tot de strijd van de Tunesische sans-papiers in Parijs of de strijd tegen de gevangenissen voor buitenlanders doorheen Europa, of ook de “internationale solidariteit” wanneer ze een chantage wordt.

 

Ik heb niet weinig kameraden gezien die loslieten, of simpelweg opgaven door deze mechanismes. Ik zie bij hen een zeker gebrek aan volharding, aan wil om zelf te creëren wat we willen zien leven, soms verwijt ik het hen. Maar ik kan niet helemaal hen verwijten om de armen te laten hangen, omdat vaak de kracht en de volharding aan de kant staan van diegenen die de macht bezitten, want sowieso hebben we dat nodig om het te verkrijgen en te onderhouden.

 

Eerlijk gezegd denk ik niet dat ik overdrijf als ik zeg dat ik hier praat over zaken die wij allemaal kennen binnen de beweging; de rollen, de vervloekte rollen. Op een of ander moment hebben we ons allemaal teruggevonden, opgesloten in rollen in onze groepen. De handige, de schrijver, de netwerker, de technieker, de theoreticus, de dwaas, de intelligente, de lay-out’er, de plakker, de tagger, de kamikaze, de paranoïde, de timide, de afwezige, de radikaal, de gematigde, de creatieveling, allen met een zeker mate van professionalisering. Wat er toe doet, is ermee te breken.

Ik wil niet de verschillen van eenieder ontkennen of afvlakken, elk individu wordt gedreven door verschillende tendenties, passies en smaken, maar één ding is zeker, men moet niet het monopolie van de gerespecteerde kenmerken overlaten aan één enkel of enkele individuen in een groep, want dat is de meeste zekere weg om een leider te creëren, soms zelfs zonder de instemming van die persoon. We weten het, we hebben het al gezegd en duizend keer herhaald, er zijn enkel meesters omdat er slaven zijn om hen te gehoorzamen.

 

We moeten dus wantrouwig zijn binnen groepen, zowel als in de relaties tussen groepen, tegenover alles dat toelaat dat “prestige” of “verdienste” plaats inneemt. De oudsten zijn niet het meest respectabel, de gevangenis maakt kameraden niet interessanter, de kwaliteit van een kameraad is niet meetbaar volgens het aantal gebroken ramen… Ze is ook niet anders meetbaar. Het prestige is de hiërarchie, en de hiërarchie is macht. Men moet geen schrik hebben om zijn vrees en zijn twijfels te uiten, men moet zich niet laten imponeren door dogma’s. Het is niet omdat een kameraad beter is in het uiten van zijn zekerheden dan een andere in het uiten van zijn twijfels dat die eerste de waarheid aan zijn kant heeft, allereerst omdat de waarheid niet bestaat, maar ook omdat de retoriek enkel voor diegene die ze beheerst de capaciteit om te overhalen en niet te overtuigen is.

 

Zij die het meer gewoon zijn om hun posities uiteen te zetten, en ik reken mezelf daar ook toe, hebben dus een verantwoordelijkheid als ze niet op zoek zijn naar een machtsgreep. Binnen de anarchistische beweging moeten de mechanismes van de intellectuele autoriteit bevochten worden zowel door diegenen die in staat zijn om ze te produceren als door diegenen die eerder in de positie zijn om ze te reproduceren.

 

Een anarchist zonder de gewoonte om zich te deconstrueren

Libros subversivos, no bienes de consumo

Cuando pensamos en libros subversivos no son esos libros de rebeldía juvenil que pueden encontrarse en cualquier librería de una gran ciudad lo que nos viene a la cabeza, ni esos libros más o menos críticos salidos de nuestro entorno cercano o de los cabezas-pensantes de las universidades, sino ejemplos como el de Severino Di Giovanni cuando fue capturado el 29 de enero de 1931 saliendo de un taller de linotipia donde había ido en relación a las matrices de un libro de Reclus. A pesar de ser durante cuatro años la persona más buscada en Argentina por diversas expropiaciones, atentados y por su actividad agitativa, arriesgó su libertad y su vida para obtener las matrices que necesitaba. Las imprentas estaban en el punto de mira y permanecían vigiladas, pero valía la pena arriesgarse una vez más para un nuevo libro. Unos meses antes había cumplido su objetivo de montar una imprenta propia donde imprimir libros, opúsculos y periódicos, con el dinero de una expropiación reciente aunque utilizando sólo una pequeña parte para ello: la mayor parte iría para la solidaridad con los compañeros presos.

También pensamos en Jean-Marc Rouillan, Oriol Solé y otros compañeros quienes a principios de los años 70 atracaban bancos y expropiaban máquinas de imprenta para hacerse con todo lo necesario para poder imprimir libros en Toulouse y pasarlos clandestinamente a Barcelona y otras regiones del Estado español.

O quizás en un ejemplo de lo más inspirador, el de los jóvenes anarquistas de la ciudad de Bialystok, quienes durante los primeros años del Siglo XX, además de aterrorizar a burgueses y gendarmes, dedicaban gran parte de su energía y sus medios a la traducción, impresión y transporte de material escrito. En 1905 expropiaron 330 kilogramos de tipografías para montar Anarjiya, la primera imprenta anarquista de Rusia: una imprenta clandestina para sus publicaciones y libros. Con el tiempo muchos anarquistas rusos imitarían el gesto, varios de ellos jugándose ir a prisión, ser desterrados, ser condenados a trabajos forzados o a morir.

Para muchos anarquistas alrededor del planeta, imprimir, mover y difundir libros era igual de peligroso que llevar armas y explosivos: en parte eran armas y, es más, eran armas muy potentes.

Estos son los ejemplos que nos vienen a la mente, entre otros… como el ejemplo de aquellos luchadores que, escapando de la represión, montaron una imprenta en una cueva en los Urales. Son solamente algunos ejemplos de una estrecha relación entre libros y subversión, unos ejemplos inspiradores no sólo porque los libros —muchos de los cuales eran considerados peligrosos o simplemente estaban prohibidos— se imprimían y difundían de manera clandestina, saltándose todas las prohibiciones y alejándose de cualquier relación con la lógica de consumo de la que hoy en día parece no haber escapatoria, sino porque todo lo relacionado con el desarrollo de estos proyectos editoriales, la manera en la que se ponían en marcha esas máquinas y proyectos, así como la ilusión y espíritu de lucha, parecen de otro mundo. Pero no del todo.

Muchos proyectos de editoriales e imprentas actuales, como también algunas revistas y periódicos, nos sentimos motivados por ese espíritu que antaño abundaba y del que esos ejemplos son solamente unos pocos. Intentando no entrar en —pero también intentando dinamitar— todo proceso de producción/consumo, la lógica de los beneficios, las relaciones comerciales y laborales, buscamos devolver ese espíritu subversivo, ya que un mensaje radical debe estar contenido en una forma de difusión a su altura.

Entendemos que hay proyectos con finalidades de subsistencia relacionados con la edición y distribución de libros anarquistas, que lo ven y lo viven como una forma modesta de ganarse la vida, y esto, con la mierda de trabajos y las posibilidades de vida dentro de los marcos del sistema que nos imponen, en parte lo podemos entender. Pero también deberían tener en cuenta que para nosotros, que buscamos formas de vivir diferentes, en las que nuestra vida y nuestra lucha estén totalmente relacionadas con nuestra cotidianidad y alejadas de las relaciones de producción y consumo, no nos cuadra la idea de trabajar en lo que para nosotros es una herramienta más de lucha, un arma más en esta guerra social.

Entre nuestros objetivos se encuentra la difusión, mientras más amplia y más accesible mejor, de ideas, propuestas, visiones, interpretaciones, desde un punto de vista radical. Y creemos que esto debe hacerse desde una ruptura, lo más radical posible, con las formas que el capitalismo nos ofrece para esta tarea. Por eso vemos importante rechazar la distribución comercial que encarece los precios, la lógica de vender los libros 10 veces más caros que el precio de coste de impresión, el culto de las grandes librerías, el uso de los códigos de control y numeración —sea con fines comerciales o de clasificación (código de barras, ISBN, etc.)—, los derechos de autor (copy lo que sea), etc.; y vemos necesario propulsar maneras más directas de distribución por medio de distribuidoras de material revolucionario, apoyar a los proyectos de imprentas anarquistas, dar por obvio que nuestro material está ahí para darle vida y ser reproducido como mejor se desee, y fomentar la mayor autonomía de nuestros proyectos en cuanto a la traducción, redacción de textos, maquetación, diseño gráfico, distribución y, si es posible, impresión, además del apoyo total, en la medida de lo posible, de otros proyectos relacionados como bibliotecas sociales, bibliotecas para presos, etc.

Quizás a algunos les suene pretencioso y a otros básico, pero para nosotros es importante también hablar de esto al referirnos a los libros y a su potencialidad subversiva.

 

Bardo, agosto de 2011.

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